Il bubbone infetto

Danilo Baratti, i Verdi

 

Mi è stato proposto di pubblicare qui il mio intervento del 13 maggio in Consiglio comunale a Lugano in merito al messaggio municipale n. 9992 del 29 agosto 2018. È forse utile una piccola introduzione.

Il messaggio chiedeva un credito di 450 mila franchi «per l’organizzazione del concorso di architettura per il recupero e la valorizzazione del comparto dell’ex macello di Lugano». Nel messaggio si definivano le tipologie di spazi previsti (spazi per manifestazioni ed eventi pluridisciplinari, spazi di coworking e costudying, alloggi per studenti, spazi di ristorazione) ma non si diceva una sola parola sul destino del centro autogestito. Nel dibattito (conclusosi con l’accettazione del messaggio con 36 voti favorevoli, 12 contrari e 5 astenuti) si è però parlato soprattutto di questo.

 

 

 

Il messaggio che stiamo discutendo ha un detto e un non detto. O meglio: il non detto è stato detto dal Municipio, ma fuori messaggio, nel Consiglio comunale del 4 febbraio scorso: la ristrutturazione dell’ex Macello esclude la presenza dell’autogestione. Nel valutare il messaggio e i rapporti dobbiamo quindi considerare attentamente anche il non detto.

 

La vicenda dell’autogestione a Lugano non mi è estranea, anzi. Nei primi anni Settanta, con Gerri Beretta Piccoli e tanti altri, all’epoca poco più che adolescenti, ero nelle strade a rivendicare un Centro giovanile autonomo. Venti anni dopo, ormai quasi quarantenne, ho assistito con sorpresa all’occupazione degli ex Molini Bernasconi di Viganello da parte di un gruppo di persone che neppure conoscevo. Ho poi seguito da vicino i primi due anni di quell’esperienza, partecipando spesso all’assemblea del lunedì, a Viganello e dopo il trasferimento al Maglio di Canobbio seguito all’incendio appiccato da mani ignote ai Molini Bernasconi. Ho pure redatto i verbali di alcune assemblee. Tempi interessanti, devo dire.

 

Si potrebbe quindi pensare che parlare del Centro sociale all’ex Macello sia per me particolarmente facile. In realtà non è così, sia per un certo coinvolgimento emotivo – anche se il CS(O)A non lo frequento da parecchi anni – sia perché la questione, da qualunque punto la si guardi (che non sia quello di chi ne fa esclusivamente una questione di ordine pubblico), è di per sé complessa. Le intransigenze incrociate (che possiamo riassumere negli slogan “Fuori i molinari dalla città!” e “Il Molino non si tocca!”) rendono la situazione ancora più incancrenita e impoveriscono il dibattito sull’autogestione.

 

E poi, certo, il centro sociale è anche un soggetto politico piuttosto indigesto. Anch’io provo a volte fastidio di fronte allo “stile politico” del Molino – a cominciare dal linguaggio, che per me è importante e rivelatore – ma è innegabile che spesso si tratta dell’unica voce che si fa carico di situazioni inquietanti, denunciandole apertamente, e di esistenze fragili che altri attori politici preferiscono tranquillamente ignorare.

 

Penso che molti di voi non abbiano mai messo piede al Molino, né ce lo metterebbero se non accompagnando qualche controllo di polizia. Lì non avete mai seguito un incontro, visto un film, bevuto una birra, ascoltato un concerto, comprato un libro, chiacchierato col primo venuto. Vi posso capire: ognuno ha i propri giri, i propri punti di riferimento, le proprie abitudini, i propri valori, le proprie idiosincrasie. Si possono trovare buoni motivi per andarci e buoni motivi per non andarci. L’uniformità del resto è deprecabile e malsana. Sta di fatto che si tratta di uno spazio assai frequentato, per diversissime ragioni: c’è chi vuole seguire una precisa proposta musicale, chi si identifica con la linea politica decisa dall’assemblea, chi non ha i soldi per bere una birra ma vuole starsene un po’ seduto in compagnia, chi la birra la vuol proprio bere lì, chi ama semplicemente trovarsi in un ambiente libero da logiche mercantili. C’è anche chi lo trova un luogo particolarmente tranquillo e sicuro: mi ha riferito Gerri che un’amica di suo figlio, ragazza “di buona famiglia”, ha detto che il Molino è l’unico posto dove una ragazza possa andare con la certezza di “non sentirsi mettere una mano sul culo”.

 

Più in generale, e guardando oltre Lugano: le esperienze di autogestione, pur generando qualche situazione problematica e qualche momento di tensione, sono ormai una componente riconosciuta delle realtà urbane. Basti pensare a quante volte la popolazione bernese ha deciso di tenere aperta la Reitschuhle, nonostante le ricorrenti iniziative di chi la vorrebbe chiudere. E quelli della Reitschuhle non sono degli angioletti accomodanti. A Lugano, per vari motivi, non riconducibili alle sole autorità comunali, non si è mai trovata una via che portasse a considerare l’autogestione come parte di una realtà urbana aperta, multiforme, composita. Anziché recepirla come un corpo diverso ma appartenente alla città, la si percepisce come un corpo estraneo, disconoscendone le funzioni culturali e sociali, enfatizzandone l’antagonismo politico e riducendo questa presenza a un problema di ordine pubblico. Nel determinare questa percezione anche le scelte degli autogestiti hanno avuto la loro parte.

 

Tornando, per chiudere, al detto e al non detto, il messaggio sulla ristrutturazione dell’ex Macello, nonostante il suo carattere apparentemente tecnico, agli occhi di molti si presenta come una resa dei conti, come l’occasione per estirpare ciò che appare un bubbone infetto nel cuore della città. Si immaginano asetticamente nuovi spazi dal richiamo certamente “trendy”: coworking, costudying eccetera. Ma si propongono contenitori senza contenuti e si espunge l’unico contenuto reale di quello spazio – contenuto sociale e culturale, per quanto problematico, fastidioso e arrogante possa essere.

 

Mi pare evidente che in base a quanto detto finora non voterò – e i Verdi non voteranno – il dispositivo di questo messaggio municipale.