Israele, analisi del voto

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente

 

Mentre chiudiamo questa analisi dell’esito del voto israeliano del 9 aprile, Benyamin Netanyahu, premier riconfermato e incaricato di formare il governo, non ha ancora annunciato la formazione della nuova maggioranza di destra che guiderà Israele, in continuità e ulteriore radicalizzazione dei programmi degli esecutivi che ha guidato negli ultimi dieci anni.

Si è però insediata la nuova Knesset (assemblea parlamentare), la più nazionalista, religiosa e annessionista (dei Territori palestinesi occupati) dei 71 anni di storia dello Stato di Israele. Questo dato assieme alla scomparsa quasi totale del centro sinistra, simboleggiata dal crollo del Partito laburista, erede del movimento che nel 1948 ha fondato Israele, offre un’idea delle politiche che vedremo nei prossimi anni, nei confronti dei palestinesi e nella regione, patrocinate da Netanyahu divenuto il primo ministro politicamente più longevo, persino più del “padre della patria” David Ben Gurion.

 

A riprova di quanto si sia ulteriormente spostata a destra la Knesset, nonostante la presenza del folto gruppo parlamentare di “Blu e Bianco”, il “partito dei generali” che si descrive centrista, basterebbe citare l’ingresso in Parlamento dell’“Unione dei partiti di destra” (Upd), una coalizione di tre formazioni ultranazionaliste di cui fa parte Otzma Yehudit (Potere Ebraico) erede del movimento razzista Kach, fuorilegge in Israele. Fondamentale per la formazione della prossima coalizione di governo, l’Upd chiede ministeri importanti, l’istruzione e la giustizia, per imporre trasformazioni radicali, di senso nazionalistico e religioso, volte ad incidere nell’educazione dei giovani e a limitare l’indipendenza dei giudici, in particolare quelli della Corte suprema. L’Upd pensa che Israele abbia bisogno di più leggi ebraiche che di democrazia. Qualcuno dubita che Netanyahu possa assegnare entrambi i ministeri all’Upd.

 

Comunque il primo ministro dovrà soddisfare queste formazioni estremiste - proprio lui ne ha favorito l’alleanza per non disperdere i voti della destra - se vorrà tenere fede alla promessa fatta in campagna elettorale: l’annessione di tutte le colonie israeliane costruite dopo il 1967, quindi di gran parte del la Cisgiordania palestinese sotto occupazione.

 

L’annuncio dell’annessione non è stato solo una mossa elettorale volta a strappare voti alla destra radicale e a favorire ancora una volta la vittoria del partito di maggioranza relativa Likud. Netanyahu punta seriamente ad annettere a Israele il 60-70 del territorio cisgiordano. Rientra in una strategia più ampia, quasi certamente discussa a lungo con l’Amministrazione Trump che alla fine del mese islamico di Ramadan, ai primi di giugno, presenterà l’“Accordo del secolo”, il piano per un nuovo ordine mediorientale fondato sull’alleanza (per ora non dichiarata) tra Israele e Arabia saudita contro l’Iran e la fine delle rivendicazioni palestinesi.

 

Stando alle anticipazioni date dalla stampa locale, il piano al quale ha lavorato Jared Kushner, genero di Trump e sostenitore del movimento dei coloni israeliani, non prevede alcuna forma di sovranità e di indipendenza per i palestinesi ai quali offre solo investimenti economici si dice per miliardi di dollari. Fondi che dovrebbero stanziare soprattutto le ricche monarchie del Golfo alleate di Washington, quella saudita in testa, che in pubblico affermano il loro appoggio ai diritti dei “fratelli palestinesi” ma che dietro le quinte rafforzano la cooperazione con Netanyahu.

 

Le petromonarchie sarebbero pronte a fare pressioni sulla leadership palestinese affinché si pieghi e accetti la legge del più forte in Medio Oriente. Trump che a nome degli Stati Uniti ha già riconosciuto tutta Gerusalemme come capitale di Israele e l’annessione unilaterale allo Stato ebraico del Golan siriano sotto occupazione, di conseguenza sarà pronto a riconoscere l’annessione annunciata da Netanyahu di gran parte della Cisgiordania.

 

Ai palestinesi potrebbe rimanere un 30% del territorio, composto di “aree amministrative” non contigue, una sorta di “contenitori di popolazione” privi di sovranità e controllati da Israele. L’Olp e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) rigettano il piano Usa e ripetono che non accetteranno la mediazione americana. Ma i palestinesi sono soli, soggetti a pressioni e sanzioni, anche finanziarie, del governo israeliano.

 

Inoltre sono lacerati dallo scontro tra il partito Fatah del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) e il movimento islamico Hamas che controlla la Striscia di Gaza. Una lotta intestina per un potere inesistente che danneggia le aspirazioni palestinesi e favorisce il progetto Usa-Israele. Gaza è isolata e la sua separazione politica dalla Cisgiordania accresce le possibilità che questo fazzoletto di terra sia definitivamente sganciato dai destini del resto dei territori palestinesi occupati.

 

Si spengono peraltro in Israele le voci a sostegno della soluzione dei “Due Stati”, Israele e Palestina. Il programma del maggiore partito di opposizione, “Blu e Bianco”, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, che ha accarezzato nei sondaggi la possibilità di battere il Likud, non contiene un appoggio alla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele. Il partito laburista, tra ambiguità e reticenze, non esclude l’indipendenza palestinese ma dalle elezioni è uscito con le ossa rotte, appena cinque deputati contro i 24 conquistati nel 2015, a causa della linea irresponsabile del suo segretario Avi Gabbai volta solo a rincorrere le politiche della destra.

 

Il partito Meretz, la sinistra sionista, parla ancora di “Due Stati” ma anch’esso ha subito i colpi della netta svolta a destra dell’elettorato ed è un miracolo che sia riuscito a superare la soglia di sbarramento e ad entrare nella Knesset. Prive di peso sono le due liste arabo israeliane, rappresentative della minoranza palestinese in Israele (circa il 20% della popolazione). La scelta fatta dal fronte Hadash (comunisti e forze progressiste) di spezzare l’unione elettorale delle forze politiche arabe ed ebraico/arabe fatta nel 2015 (con la formazione della Lista araba unita), si è rivelata disastrosa nelle urne (in totale 10 deputati contro i 13 di quattro anni fa) e ha contribuito a tenere lontano dai seggi gli elettori palestinesi, già colpiti dalla approvazione lo scorso luglio della legge Stato-nazione che definisce Israele Stato della nazione ebraica e che di fatto assegna uno status di cittadini di Serie B ai non-ebrei.

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