Alexandria Ocasio Cortez e le altre contro il trumpismo

di Luca Celada, corrispondente da Los Angeles

 

Lo scorso febbraio, nella solennità grigia e incravattata dello state of the union , l’annuale discorso a camere unificate del presidente, ha fatto irruzione un mare di bianco: quello dei vestiti che le deputate democratiche hanno scelto di indossare per dare forma, anche cromatica, alla loro compatta opposizione.

È stata una rappresentazione lampante del ruolo dal loro assunto nell’opposizione al regime di Trump, come sta d’altronde avvenendo in molti paesi dove le donne sono in prima linea nell’iniziativa politica contro il nazional populismo.

 

Negli Stati uniti, sin dalle mastodontiche wo men’s march che hanno fatto seguito all’elezione del presidente, le donne hanno guidato vocalmente l’opposizione all’impeto razzista, xenofobo e misogino del trumpismo. Negli ultimi due anni l’opposizione femminista si è trasformata in impegno politico che nelle parlamentari di mezzo termine si è tradotto nel maggior numero di donne elette al parlamento nella storia d’America. Le 121 rappresentanti in Camera e Senato (83% sono democratiche di cui 34 esordienti) sono un record ed esprimono altri importanti primati: le prime rappresentanti di tribù indiane: Sharice Davids del Kansas e Deb Haaland (Minnesota). Le prime musulmane: Ilhan Omar (di origini somale anche lei del Minnesota) e Rashida Tlaib (palestinese del Michigan) e le rappresentanti più giovani a mai sedere nel Congresso.

 

La nuova generazione di donne politiche annuncia apertamente la propria identità - femminile, progressista ed “etnica” - e rappresenta sia un ricambio generazionale che un rinnovamento ideologico rispetto ad un’establishment democratico che ha stentato a connettersi con gli elettori più giovani.

 

È impossibile sopravvalutare ad esempio la forza iconografica della parlamentare Ilhan Omar ritratta quotidianamente a Capitol Hill, tempio del potere politico di Washington, con il suo hijab. La rappresentante di origini somale eletta in un distretto del Minnesota dove risiedono molti profughi del suo paese di provenienza, è fieramente musulmana ed ha fatto dell’opposizione al Muslim Ban il perno della sua attività politica, introducendo il mese scorso un disegno di legge per abrogare in perpetuità la famigerata interdizione ai musulmani promulgata da Trump. Gli è valso il fuoco incrociato della destra identitaria e dello stesso Trump che ad aprile ha postato una serie di attacchi personali culminati in un video in cui accostava Omar agli attentati dell’11 settembre. La propaganda non ha mancato di sortire gli effetti prevedibili e sempre il mese scorso la polizia ha arrestato un uomo in seguito ad una telefonata in cui aveva promesso di “mettere una pallottola nel cranio di quella st***a terrorista” Agli agenti dell’FBI Patrick Carlineo ha dichiarato di essere un patriota ed un fedele seguace del presidente, dunque “uno che non sopporta la presenza di musulmani radicali nel nostro governo.”

 

Alla nefasta tossicità iniettata dal suprematismo trumpista, Omar e le altre parlamentari progressiste hanno in pratica anteposto i propri corpi, sfidando al contempo l’ala moderata del loro partito che si è finora mostrata politicamente annichilita ed incapace di contrastare l’attacco nazional populista, mai del tutto recuperata dalla sconfitta della ex leader, Hillary Clinton. Non vi è dubbio che esse derivino ulteriore legittimità dall’essere progressives of color , cioè espressione di settori sociali che prendono per la prima volta direttamente la parola. E lo hanno fatto subito e con inedito candore, esprimendosi contro il sequestro dei figli agli immigrati e la spesa militare ingigantita, per l’ambiente e contro le guerre, inquadrando cioè direttamente le questioni etiche poste da un regime amorale. In seguito alla pubblicazione del rapporto Mueller sulle ingerenze russe nelle presidenziali del 2016, le giovani parlamentari si sono schierate per l’impeachment del presidente contro i moderati che chiedevano pragmaticamente di archiviare la faccenda. Così facendo hanno espresso quel “qualcosa di sinistra,” ed interpretato il pensiero di una parte consistente di liberal, inorriditi dalla deriva retrograda e oscurantista degli due ultimi anni, dalla corruzione ed incipiente autoritarismo di Trump, ma anche dall’inefficacia dell’opposizione.

 

 

La figura più eloquente ed appariscente del movimento è Alexandria Ocasio Cortez. Ad appena 29 anni è, assieme alla collega Abby Finkenauer, la più giovane rappresentante di sempre ad entrare in parlamento. Cortez che si dichiara apertamente socialista, ha galvanizzato l’entusiasmo dei progressisti e attirato su di se gli strali dei conservatori. I commentator trumpisti della Fox l’hanno presto eletta simbolo della “sinistra radicale” concentrando su di lei attacchi con la violenza che caratterizza di questi tempi quelli contro le donne che osano uscire del ruolo assegnato.

 

La neodeputata è stata tacciata di anti americanismo e alto tradimento, calunniata e derisa da troll repubblicani che sui social hanno vomitato fiumi di fiele e minacce. Nel giro di pochi mesi AOC – come viene chiamata spesso – è diventata simbolo di un rinnovamento necessario e possibile per uscire dall’attuale involuzione suprematista e patriarcale. L’inizio di quella che è una delle più rimarchevoli parabole della recente storia politica americana è documentato in Knock Down The House, un documentario da poco disponibile sulle piattaforme Netflix. Diretto da Rachel Lears, il film segue le campagne elettorali di quattro candidate “ribelli” che l’anno scorso hanno deciso di sfidare i candidati istituzionali del partito democratico nelle primarie parlamentari. Lears documenta come le candidature siano state coadiuvate da due political action committee vicini alla campagna di Bernie Sanders - Justice Democrats e Brand New Congress - con lo scopo di riprendere il controllo del congresso dai repubblicani e imporre una svolta progressista al partito democratico.

 

Fra le molte che avrebbero contribuito di lì a un anno e mezzo alla effettiva riconquista democratica della camera, Lears sceglie quattro donne le cui candidature sembrano davvero avere poche possibilità di scalzare avversari ben più ferrati e meglio finanziati di loro. Nel West Virginia la sua cinepresa segue Paula Jean Swearengin, figlia di un minatore di carbone che guida la lotta contro le operazioni di fracking che minacciano la salute della sua comunità. A Las Vegas incontriamo Amy Vilela madre e nonna single che si batte per una riforma sanitaria (sua figlia è morta a 21 anni dopo che un ospedale ne aveva rifiutato il ricovero perché sprovvista di assicurazione privata). Cory Bush è residente del distretto a maggioranza afro americana vicino Saint Louis dove l’omicidio di Michael Brown ed endemica discriminazione razziale avevano scatenato le rivolte di Ferguson. La quarta protagonista è Ocasio Cortez, che sbarca il lunario come barista e decide di sfidare la macchina politica apparentemente inscalfibile di Joe Crowley, rappresentante di lungo corso del quattordicesimo distretto nonché esponente di spicco del gruppo dirigente nazionale del partito democratico.

 

Sono tutte outsider di cui la cinepresa registra il prosaico lavoro di organizzazione politica, i quartieri attraversati porta a porta per distribuire volantini e stringere la mano a potenziali elettori, le sedute a tarda sera con strateghi consiglieri (volontari, compresi amici conoscenti o a volte famigliari) attorno a un tavolo da cucina. Incontri e piccoli comizi si alternano a momenti di candore, quelli delle defaillances e dei dubbi espressi in confidenza a compagni davanti al televisore o con in mano lo spazzolino da denti. Un’intimità assai inconsueta nel mondo della comunicazione politica, sempre pilotata e attentamente calibrata.

 

Giovane e sicura di sé e, allo stesso tempo, a tratti sfiduciata quando confessa le proprie incertezze al fidanzato nel minuscolo appartamento del Bronx, Ocasio Cortez trasmette un carisma naturale che la rende protagonista del film come lo sarebbe diventata una volta eletta al parlamento. La seguiamo nei volantinaggi ai pendolari davanti alla stazione del subway , mentre parla con gli avventori di un mercato rionale, stringe la mano a madri musulmane, commercianti yemeniti e caraibici - gli abitanti del mosaico etnico e culturale del Queens che sono il volto dell’America cancellata da Trump.

 

È un manuale di politica di base oltre che una mappa di attivismo locale che fotografa l’ideale del politico-cittadino, di populismo virtuoso, così insito nell’idea americana, da Jefferson a Frank Capra. Attraverso cene e riunioni famigliari, Knocking Down The House approfondisce le radici di AOC in una famiglia working class di origini portoricane, ferreamente solidale. Gli album ed i filmini di famiglia rivelano una giovane donna dalla determinazione fuori dal comune, posseduta sin da bambina di una intelligenza empatica e di un senso istintivo di giustizia formati in gran parte dal rapporto con un padre profondamente etico.

 

Le narrative parallele del film convergono infine verso il culmine da thriller, quando dopo gli ultimi sondaggi, il verdetto passa alle urne, e il suspense è quasi intollerabile. Alla fine non tutte le candidate riusciranno a prevalere come AOC ma come dice lei stessa: “perché una ce la possa fare, cento devono tentare.” È chiaro che queste quattro donne come le centinaia che si sono candidate ai mid-term, si considerano solo l’avanguardia di un movimento più ampio e più profondo, il cui obbiettivo è sconfiggere Trump e l’anno prossimo riprendersi il paese dalla minoranza populista, e in senso più lato dal sistema politico bipartisan, che lo tiene in ostaggio.

 

E lo scontro con la vecchia guardia è tutt’altro che concluso. Il partito, guidato dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, ha di recente adottato regole che ridurranno i finanziamenti a candidati che alle primarie vogliano sfidare democratici in carica. Intanto una scorsa ai nomi scesi in campo per le primarie democratiche dell’anno prossimo dimostra che la spinta innovativa delle donne progressiste non si è esaurita. Fra candidate ufficiali e potenziali sono una mezza dozzina le donne che promettono di essere protagoniste delle prossime elezioni fra cui l’ex procuratore della California Kamala Harris, di discendenza indiana e afro americana ed Elisabeth Warren, senatrice del Massachussets, pasionaria liberal e paladina dei consumatori. Il loro contributo promette di essere fondamentale nel plasmare il confronto politico mettendo in chiaro i termini dello scontro fra suprematismo e diversità, e in definitiva fra passato e futuro.

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