di Alfredo Quarta
Guido Pedroli, nato a Bellinzona nel 1928, è cresciuto, si è formato e si è laureato a Torino. Si è laureato nel 1950 in filosofia, sotto la guida di Guzzo e Abbagno, con una tesi su Max Scheler, premiata come miglior tesi della Facoltà di lettere e filosofia.
Era la Torino di Gramsci e di Gobetti, di Pavese, di Ginzburg, di Carlo e Primo Levi, di Einuadi, di Geymonat, ecc.; la Torino della grande industria e dei duri scontri di classe; la Torino dell’oppressione nazi-fascista e della Resistenza di cui era un punto-chiave nel nord-Italia. Con questo bagaglio culturale, dopo la laurea e dopo alcuni viaggi di formazione in Svezia e in Germania, Pedroli torna definitivamente in Ticino nel 1951, poco più che un ventenne, con la decisa volontà di impegnarsi nella vita culturale e politica di questa nuova realtà.
I primi contatti con il Ticino sono quelli con la scuola (insegna dapprima al ginnasio poi alla scuola magistrale di Locarno) e con il partito socialista al quale si iscrive nel 1952. Realtà che gli pongono da subito grossi interrogativi. Nella scuola prevale un atteggiamento di deresponsabilizzazione di fronte alla passività di allievi e docenti e alla tendenza generale a dispensare programmi esageratamente carichi di contenuti anziché puntare sulla stimolazione dell’intelligenza e sulla costruzione di propri metodi efficaci di studio.
La stessa inerzia caratterizza la vita politica del cantone: “la vita politica ticinese si è cristallizzata da decenni”, scriverà più tardi. Un partito socialista che trascina una politica al traino delle cose, rinunciando ad elaborare un suo progetto politico, fondato su una analisi seria della realtà in cui opera. Una realtà che, si rende ben conto, è in definitiva quella della cultura in generale del Ticino che, essendo “iperbolicamente” protetta, finisce per sfavorire la qualità. “Sarà forse favorevole ai mediocri. Ma i più dotati si sentono travolti... reagiscono, ma in modo affatto negativo. Chiudendosi in se stessi ad assumendo un atteggiamento di sfiducia che sfocia nella rinuncia o nell’esasperazione.” Scrive a un certo punto del suo diario, più tardi: “Com’é possibile un lavoro di “intellettuale” nel Ticino?” E distinguendo fra “diversi tipi di intellettuale, conformemente ai diversi usi dell’intelletto nei confronti della realtà”, ricorda “quando arrivai nel Ticino, ero malato di spiritualismo e idealismo astratto e velleitario: credevo nella parola intesa come formula magica, credevo nell’anima bella che si mantiene immacolata nelle brutture della realtà, credevo nella creatività della coscienza: idee, sentimenti, azioni tutto ha le sue radici nel foro interiore e si alimenta per sola virtù di coscienza.”
Concludeva quell’annotazione con un monito: “Un grande pericolo: la mistificazione della realtà: travestire la realtà di fantasie, idealizzarla per non vederla com’é e per non assumersi la responsabilità e la fatica di trasformarla. Rientra negli atti (in parte almeno) mistificatori il costume di liberarsi dell’angoscia che le contraddizioni della realtà necessariamente portano con sé con periodiche espressioni di sdegno o di desideri.” E sarà proprio questo pericolo e la spinta quindi a desoggettivare, deideologizzare la realtà, a svestirla di tutte le incrostazioni di cui i nostri pregiudizi stratificati l’hanno ricoperta, fino a coglierne l’essenza e le possibilità a guidarlo nei suoi studi successivi e nel suo operare.
Così, mentre da una parte, proprio per approfondire queste tematiche, - congedandosi per due anni dalla scuola - affronta lo studio degli scritti di Husserl e porta a termine una delle sue opere più importanti, “La fenomenologia di Husserl”, pubblicata a Torino nel 1958 e, più tardi la storia del movimento operaio in Ticino, che sfocia poi nella stesura de “Il socialismo nella Svizzera italiana”, pubblicata postuma a Milano nel 1963, porta avanti, dall’altra, tutto un insieme di iniziative volte a rimuovere quell’inerzia e quella passività dappertutto dove gli è possibile. Decide di introdurre, per esempio, in terza e quarta magistrale, in 2-3 ore libere quindicinali sue e nostre un seminario volontario di storia, sul medioevo, su riforma e controriforma, ecc. Puntando sul lavoro di gruppo e sullo sviluppo di propri metodi di lavoro.
Forme di lavoro che qui erano ancora poco e punto conosciute e che proporrà poi anche negli incontri mensili con i docenti - promuovendo oltretutto la conoscenza e la discussione delle nuove tendenze pedagogiche - e nelle serate della Biblioteca Socialista di Locarno che, insieme con alcuni giovani del partito socialista e del partito del lavoro organizza tra gennaio 1961 e maggio 1962. E così condurrà nel 1961-62 la battaglia per l’iniziativa anti-atomica. Pur avendo contro tutti i partiti cantonali, riesce a responsabilizzare un folto gruppo di giovani che, con lui, portano la discussione un po’ in tutti i comuni, riuscendo a liberare la maggioranza della popolazione dalle briglie e dai paraocchi partitici e a far vincere l’iniziativa. Fu l’ultimo capolavoro di Guido Pedroli. Morì poco dopo a 34 anni.
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