Il PIL? Un indicatore perverso!

Intervista di Franco Cavalli a Pietro Majno-Hurst

 

Pietro Majno- Hurst è primario di chirurgia all’Ospedale Civico, professore alla facoltà di medicina USI e direttore del dipartimento di chirurgia dell’EOC. 

 Prima di arrivare in Ticino era Professore all’Università di Ginevra e responsabile in particolare dei trapianti di fegato al HUG.

 

 

 

Tu sei noto per essere un sostenitore della decrescita. Non pensi che in un mondo dove la povertà sta aumentando, così facendo rischieremo solo di essere ancora di più anti-sociali?

Crescita e decrescita, nell’accezione comune, si riferiscono al Prodotto Interno Lordo (PIL), che rappresenta la somma del valore delle transazioni economiche in un paese. Il movimento della decrescita, o meglio dell’obiezione di crescita - il nome preferito dal gruppo di opinione nel quale sono attivo in Svizzera Romanda (in Francese c’è un gioco di parole con l’obiezione di coscienza), attira l’attenzione sul fatto che l’Umanità non sa far crescere il PIL senza utilizzare sempre più materie prime ed energia, per le quali esiste un imperativo ecologico di riduzione. Ma questo imperativo si applica ai paesi sviluppati, non ai paesi in via di sviluppo: loro hanno bisogno di crescita per ottenere livelli di infrastrutture, sicurezza, istruzione, salute e comfort semplicemente accettabili. Si è espresso esattamente così anche Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si”. Un’immagine utile è che la terra è popolata da una famiglia di 5 fratelli, e che solo il fratello che abita l’occidente ha in mano la carta di credito, con la quale spende i 4/5 dei soldi, asciugando il conto ecologico comune. Evidentemente sono favorevole che i restanti 4 possano spendere di più, ma per rientrare in un regime sostenibile dal punto di vista ecologico noi occidentali dobbiamo spendere meno.

Il conto è presto fatto: come diceva Gandhi “dobbiamo vivere più semplicemente affinché gli altri possano semplicemente vivere”. Più tecnicamente, politici e economisti di tendenza liberale non considerano che la gestione del capitale naturale (i limiti planetari dettagliati in un articolo del giornale Nature) è prioritaria per la prosperità, se non per la sopravvivenza, della specie umana. È un’attitudine suicidaria, incoraggiata dal PIL che è un indicatore perverso, perché misura i flussi economici ma non il capitale sul quale si fondano, né la sostenibilità del processo; esso dà dunque una percezione pericolosa della ricchezza.

Per esempio, nello sfruttamento di un lago o di una foresta, fino all’ultimo pesce che si vende o albero che si taglia il PIL aumenta, anche se dopo quello il lago è vuoto o la foresta rasata.

 

 

Ormai anche i Liberali stanno tentando di darsi un’immagine verde: ma è pensabile di salvare il mondo, se continuiamo a basarci sempre e solo sulle economie di mercato?

Penso che l’economia di mercato, nell’accezione liberale (o peggio, neoliberale) del termine che sottintende il minor numero di regole e limiti possibili (in realtà le regole esistono, ma sono quelle favorevoli al capitale), non sia compatibile con la gestione sostenibile delle risorse naturali, né con una società prospera e, idealmente, felice. Questo non per mia fede ideologica, ma semplicemente per constatazione di quello che è successo, o meglio, non successo, da quando il problema delle risorse ambientali è stato identificato e illustrato su basi scientifiche, negli anni ‘70. Inoltre sappiamo che il contenimento delle ineguaglianze via la perequazione delle retribuzioni e/o la redistribuzione fiscale si correla a un maggior benessere della società nel suo insieme. Abbiamo perso 50 preziosissimi anni a causa di una fede cieca nelle virtù del libero mercato.

La metafora abituale dello sviluppo sostenibile è uno sgabello con tre piedi, Economico, Ecologico e Sociale, che devono avere dimensioni compatibili con un’assise equilibrata. Purtroppo, da quando questa immagine esiste, la situazione ambientale si è degradata dappertutto, e dal lato sociale sono pochi i paesi che hanno progredito. Questo essenzialmente perché lo sviluppo economico, la crescita in altri termini, è stata considerata come prioritaria (…il resto avrebbe seguito, senza crescita nessuna speranza di progresso ambientale, sociale, o tecnologico, dei quali avrebbe assorbito i costi).

L’immagine va sostituita con un cubo di Rubik: ha sì le tre facce dello sviluppo sostenibile, ma la faccia economica deve essere decisamente subordinata a far quadrare le altre due (la priorità della faccia Sociale rispetto all’Ecologica può essere una questione di valori personali). Ma in più, il cubo ha anche tre facce nascoste, Uguaglianza, Comfort, e Scelta. Oggi viviamo in una società che permette condizioni di iper-scelta, di iper-comfort, e di iper-ineguaglianza, elementi che vanno ridotti per far quadrare il Rubik. L’economia liberale si oppone alla subordinazione dell’economia, e alla riduzione delle ineguaglianze, del comfort e delle scelte (acquisti, viaggi in aereo, cambio di automobile, etc.). È paradossale che stiamo parlando qui di valori che sono considerati positivi da tutti nella vita personale, famigliare, e da quasi tutti nella gestione delle imprese (a parte l’elemento delle retribuzioni di quadri, che hanno preso proporzioni deliranti, attorno a 300-400 nelle grandi multinazionali e banche).

 

 

Quali proposte legislative si sentirebbe di proporre se fosse eletto al Parlamento svizzero? E in quello Europeo?

Il problema più urgente è quello ambientale: bisogna urgentemente ridurre la pressione che l’umanità mette sui limiti planetari: la biosfera è un sistema biologico dunque fisico, e bisogna smettere di considerare che obbedisca a criteri politici. Proporrei dunque dei limiti ecologici al sistema produttivo-economico: non deve essere possibile creare profitti prima di aver compensato il debito ambientale che il ciclo di vita dei prodotti e delle attività genera. Esempi facili ai quali questo deve essere applicato sono le industrie estrattive, i trasporti, l’edilizia, l’agricoltura, ma in realtà il principio deve essere applicato a tutte le attività economiche. Vorrei delle regole dure contro le attività nocive o inutili: l’obsolescenza programmata, la fabbricazione di armi, tabacco, e contro la pubblicità che incoraggia consumi superflui e attraverso la quale la nostra attenzione è venduta senza il nostro consenso.

Vorrei che si investisse nella ricapitalizzazione della Natura, che stiamo impoverendo con cicli produttivi che la degradano per produrre denaro, un meccanismo che ora si deve far girare al rovescio. Vorrei che si investisse nell’aumento del livello culturale della popolazione, perché ci riconoscessimo meno in quello che comperiamo e più quello che impariamo, vediamo, suoniamo o leggiamo.

Insomma vorrei che si pagassero di più gli insegnanti e meno lavoratori del settore finanziario, e che si ingaggiassero più giardinieri per pulire boschi e fiumi e meno venditori di telefonini. Evidentemente una società dove lavorassimo di meno, andassimo più a scuola, facessimo più passeggiate in famiglia deve disporre un reddito di base di cittadinanza e deve essere finanziata, ma penso che i mezzi ci siano: il recupero da parte dello Stato della creazione monetaria ora fatta per circa il 90% dalle banche private, la lotta all’evasione fiscale, e un’imposta ecologica sul patrimonio. Balzac forse esagerava facendo dire a Vautrin che ogni patrimonio ha origine in un assassino, ma è certamente vero che ogni capitale ha necessitato di molto CO2; non lo si sapeva, ma ora sì, e va compensato.

Vorrei che si estraesse il sistema della salute dalla logica del mercato e della solvibilità della domanda, passando a un’assicurazione Nazionale senza scopo di lucro. Ho fatto la mia formazione nel NHS britannico che, prima dello smantellamento operato da Margaret Thatcher, garantiva prestazioni di eccellente qualità con solo il 6% del PIL. Ora in Svizzera siamo circa al 13% di un PIL molto più grande.

 

 

Nel campo della mobilità, una delle fonti principali dell’inquinamento, si va sempre di più verso la liberalizzazione: quelli che erano beni comuni stanno diventando assets privati. Dobbiamo quindi tornare alle PTT e alle ferrovie completamente nazionalizzate?

La mobilità è un problema complesso perché ci siamo abituati a considerarla un diritto fondamentale. Penso sia indispensabile mantenere un facile accesso alle infrastrutture di base come le strade e le ferrovie, che per essere efficaci e sicure devono restare al di fuori di una logica liberale di redditività. Si sa ora come quest’ultima abbia avuto effetti devastanti negli Stati Uniti dove ferrovie, strade e ponti si sono degradati a livelli inaccettabili, e non si deve seguire l’esempio del Ponte Morandi a Genova, vittima di poca manutenzione ma di molti dividendi da parte della Società Italiana Autostrade (Gruppo Benetton).

Sono fiero e felice di vivere in Svizzera, dove ferrovie e strade sono mantenute dallo Stato, in gran parte con le nostre tasse. Ma il problema della mobilità è più complesso e si presta bene all’immagine del Rubik illustrato sopra: ci muoviamo in condizioni di iper-scelta, iper-comfort e di iper-ineguaglianza, almeno a scala mondiale. Dovremmo creare incentivi per spostarci verso forme di mobilità attiva e sostenibile, anche se meno veloci o comode, tra l’altro con beneficio per la salute degli utenti e di tutti. Si tratta di un grande cantiere sociale e culturale e anche questo va finanziato.

 

 

La rivolte dei Gilets Jaunes, ma anche movimenti simili in altri stati europei, hanno dimostrato che è impossibile imporre alle classi più sfavorite misure ecologiche punitive. Come fare allora?

Bisogna accompagnare le misure ecologiche, necessarie dal punto di vista della fisica, con misure adeguatamente redistributive sul piano sociale. L’indignazione dei Gilets Jaunes si è espressa al momento dell’aumento del prezzo del diesel a buon mercato, misura giustificabile per scoraggiarne l’uso, ma deriva soprattutto dal fatto che la Francia non ha domandato che pochi sforzi ai più ricchi, e resiste tuttora all’istituzione di un’imposta patrimoniale (tra l’altro, da noi questa è dell’1%: quello che Thomas Piketty raccomanda come misura appropriata di ridistribuzione). Penso che si debba andare verso un sistema nel quale ogni cittadino abbia delle quote di materie prime ed energia a sua disposizione per usarle a seconda dei suoi valori, priorità e gusti. Se sono vegano posso permettermi qualche viaggio in più, o se vado in bicicletta posso mangiare più bistecche, ma non si può avere sempre tutto e subito in un mondo finito.

Non ho paura di dire che ci vuole un vero e proprio razionamento, perché le quantità di risorse disponibili è un dato fisico, non politico. La parola è ancora tabù, ma altre parole lo erano, prima che si cominciasse a usarle e a trovare che questo era utile per trovare le soluzioni adeguate, come la parola cancro e chemioterapia, per prendere un esempio dal nostro mestiere.

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