Sotto i colpi sempre più feroci di Trump, Cuba barcolla ma resiste

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

Ha un retrogusto amaro la vittoria ottenuta il 6 novembre dalla diplomazia cubana all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: 187 paesi hanno votato a favore della condanna del sessantennale embargo unilaterale imposto dagli Usa all’Isola. 

Contro si sono espressi, come sempre, Usa e Israele ai quali si è aggiunto il Brasile di Jair Bolsonaro (Ucraina e Colombia si sono astenuti). La rappresentate all’Onu degli Stati uniti, Kelly Craft, ha però detto chiaro e tondo quello che per anni è stato solo sussurrato: “Decidiamo noi con chi commerciare”. E a chi far guerra. Gli altri, praticamente il mondo intero, non devono metterci becco.

 

La brutalità delle parole di Craft fa seguito a quella praticata dal suo capo, per il quale le risoluzioni dell’Onu sono poco più che carta straccia. Da quando si è installato alla Casa Bianca, Donald Trump ha approvato 187 misure contro Cuba. Una cinquantina quest’anno. Negli ultimi mesi le più brutali, che vanno dal tentativo di blocco marittimo delle navi venezuelane che trasportano greggio all’isola, al taglio delle rimesse dei cubano americani, al divieto per crociere e per voli commerciali verso il territorio cubano - con l’eccezione per qualche volo verso l’Avana - all’ultimo decreto, varato alla vigilia del voto dell’Onu, che vieta anche gli scambi culturali. Nei fatti un vero e proprio strangolamento dell’economia dell’isola, visto che vengono prese di mira le principali voci del bilancio cubano: turismo, rimesse e missioni mediche.

 

Il blocco economico, finanziario e commerciale è diventato una guerra sempre più spietata, con l’esplicito obiettivo di abbattere il governo socialista di Cuba. L’isola e il Venezuela bolivariano sono infatti il primo fronte di resistenza a quella che per l’Amministrazione Trump è la politica da praticarsi nei confronti del Sud del continente: la dottrina Monroe, la quale afferma che l’America latina è il cortile di casa degli Usa, dove chi non è con Washington deve essere trattato col big stick, schierando le cannoniere o i marines.

 

Le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi del mondo. A gennaio 2019 in Venezuela un illustre signor nessuno si è autoproclamato presidente legittimo solo perché a questo compito era stato preparato e indicato dai falchi della Casa bianca. I quali si erano illusi di essersi lavorati i vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza venezuelani per abbattere il governo bolivariano del presidente legittimo Nicolás Maduro. L’errore dei calcoli del senatore Marco Rubio e dell’ex responsabile della sicurezza nazionale John Bolton non avevano tenuto conto che le Forze armate erano state fortemente politicizzate da Hugo Chavez hanno fatto sì che le cartucce di Juan Guaidó fossero bagnate e che l’”autoproclamato” - seppur riconosciuto da una sessantina di paesi alleati degli Usa - abbia fallito la sua missione di abbattere Maduro.

 

L’errore però non si è ripetuto in Bolivia, dove polizia e Forze amate si sono schierate contro il presidente Evo Morales costringendolo (domenica 10 novembre) a dimettersi e a lasciare il paese. La polizia apertamente, fiancheggiando le squadracce –armate e finanziate dagli Usa- del leader di destra “Macho” Camacho che hanno aggredito, sequestrato e torturato soprattutto dirigenti del Movimento al socialismo (Mas) e leader indigeni. E che hanno messo a ferro e fuoco sia i Tribunali elettorali che varie sedi del Mas e le abitazioni di vari leader, compresa quella di Morales, minacciato apertamente di morte. Le Forze Armate, da parte loro, hanno rispettato la tradizione latinoamericana che le vede schierate con le oligarchie bianche e con gli Usa. Sull’onda di accuse di “brogli elettorali giganteschi” preparate e ripetute ancor prima dell’inizio delle elezioni in Bolivia si è consumato un golpe dal sapore fascista: con squadracce che usano manganelli (e armi) e con la caccia all’indio, espressione di una “razza inferiore”. Beninteso con la Bibbia in mano, come comanda l’ondata di destra sollevata dalle sette pentecostali dell’America latina che in Brasile hanno portato al successo il razzista, xenofobo e sessuofobo Jair Bolsonaro. A concludere il golpe ci ha pensato la senatrice dell’oppposizione Jeanine Áñez che - sulle orme di Guaidó - di fronte a un Parlamento senza quorum si è autoproclamata presidente della Bolivia.

 

A causa della guerra economica di Trump e in questo difficile panorama di un’America latina divisa tra lotte popolari contro la diseguaglianza prodotta dalle politiche neoliberiste e restaurazione di destra, il governo cubano si trova a dover fronteggiare una drammatica scarsezza di beni di prima necessità e soprattutto di valuta estera, necessaria per mantenere la sua politica di redistribuzione socialista e di sviluppo, oltre che a pagare il debito estero. La severa flessione del turismo (secondo dati ufficiosi) e delle rimesse, il mancato decollo di importanti investimenti esteri, accoppiato a una mancanza di produzione di beni capaci di competere a livello internazionale, hanno generato una situazione di crisi quasi senza precedenti che ha provocato un diffuso malcontento nella popolazione.

 

Il presidente Díaz-Canel in un intervento in tv a metà ottobre ha sostenuto che si tratta di una crisi congiunturale. Anche se visto l’anno di campagna presidenziale negli Usa - peggio ancora se Trump venisse rieletto - si tratta comunque di una congiuntura di tempi non brevi. Che deve essere affrontata con determinazione e con lo scopo primario di proteggere la parte più debole della popolazione dalle conseguenze dello strangolamento attuato dall’amministrazione Trump.

 

La linea scelta dal presidente cubano è di operare su due assi.

 

Da una parte rinsaldare e incrementare i rapporti economici con (e gli investimenti dagli) alleati tradizionali, soprattutto Russia e Cina, ma anche con Paesi non allineati.

Dall’altra, riuscire raccogliere quanto più possibile della valuta esportata da una parte della popolazione cubana per comprare all’estero beni che scarseggiano nell’isola per finanziare progetti che rendano più produttivi e competitivi l’industria e l’agricoltura nazionale.

 

Dal 28 ottobre sono stati aperti alcuni centri commerciali all’Avana e uno a Santiago di Cuba dove vengono venduti in dollari elettrodomestici e moto elettriche e parti di ricambio di moto e automezzi, pagati però solo con una carta di debito emessa dalle banche di stato. Questa misura ha avuto un buon grado di accettazione visto che i cubani - almeno quelli che ne hanno la possibilità - possono acquistare generi assai richiesti - come split per aria condizionata e moto elettriche - a prezzi assai inferiori anche rispetto al mercato parallelo. Le code di fronte a tali negozi sono sempre lunghe, in attesa che ne vengano aperti altri in altre città dell’isola.

 

Alcuni economisti ed analisti - anche non della debole opposizione - invece ipotizzano che il sistema socialista cubano affronti una crisi strutturale resa più acuta dalla guerra economica di Trump . In sostanza sostengono che - nonostante le riforme varate dall’ex presidente Raúl Castro, molte delle quali però sono ancora non attuate - tale sistema sia incapace di generare le forze produttive necessarie a sostenere il wellfare socialista.

 

Secondo l’economista Oscar Fernández Estrada, in tempi brevi le misure attuate dal governo di Díaz-Canel sono positive, in quanto permettono di alleviare l’estenuante scarsezza di beni e di ossigenare l’economia con risorse che prima “fuggivano” (all’estero). Ma oltre ai benefici tali misure comportano anche nuove sfide. Prima di tutte, il rischio di una progressiva dollarizzazazione dell’economia in un paese che già è “impigliato” in due monete, il peso cubano (Cup) e il peso convertibile (Cuc).

 

Cuba dunque barcolla sotto i colpi di Trump. Ma resiste. E i prossimi mesi saranno cruciali per vedere come il governo della nuova generazione rappresentata dal presidente Díaz-Canel saprà uscire da questa crisi.

Tratto da: