Le guerre di oggi

di Collettivo Scintilla

 

Qualcuno ha detto che siamo in guerra: Libano, Haiti, Cile, Ecuador, Algeria, Hong Kong, Iraq; la lista sarebbe ancora lunga. 

Contesti, soggetti, situazioni diverse, che meritano un’analisi specifica ma che ci obbligano a considerare la dimensione internazionale.

 

L’eterogeneità situazionale impone cautela di fronte a un’interpretazione diffusionista della rivolta, e anche se alcune costanti esistono è forse utile cercare di capire qual è la guerra paventata da qualcuno.

 

Ne isoliamo tre: la prima è la guerra contro i poveri; la seconda è la guerra contro le minoranze, le autonomie e le alternative; la terza è la guerra alla memoria. Benché interconnesse, di seguito considereremo soltanto la prima e la terza, onde evitare di essere sbrigativi su questioni di massima risonanza e attualità, come l’attacco fascista al confederalismo nel Rojava.

 

 

 

La guerra ai poveri

 

Qualcuno ha parlato di una goccia che ha fatto traboccare il vaso: l’eliminazione dei sussidi al carburante in Ecuador (ma avrebbe potuto essere la Francia all’epoca dei gillet gialli, solo un anno prima), l’ennesimo aumento del costo della metropolitana in Cile, l’imposizione di una tassa sulle chiamate whattsapp in Libano. La lista degli esempi potrebbe essere ancora lunga. I media borghesi hanno ovviamente posto l’accento sulla goccia, sviando la questione e strumentalizzando – talvolta spingendosi oltre i limiti dell’etica deontologica – le violenze di piazza da parte degli insorti; ma anch’essi non hanno potuto fare a meno di restituire una fotografia del vaso, e hanno quindi fatto appello alle statistiche. Quelle del Cile, considerato l’oasi economica dell’America Latina, sembrano del resto non lasciare dubbi: secondo i dati del 2017, l’1% della popolazione detiene il 26% della ricchezza netta del paese, mentre il 50% della popolazione più povera ne possiede solo il 2,1%. In altre parole, il vaso ha una crepa, antica e profonda almeno 30 anni, come non si stancano di ripetere le piazze cilene a chi si ostina a parlare di 30 centesimi: la goccia.

 

L’analisi marxista di contesti, soggetti e situazioni, è quella che meglio ci permette di quantomeno comprendere le ragioni delle proteste nei vari continenti, oltre ad appoggiarle. È altresì quella che ci consente di identificare alcuni responsabili: dalle economie neoliberali degli ultimi decenni alle misure imposte dai regolatori dei mercati transnazionali come il Fondo Monetario Internazionale, allargando l’obiettivo su quanto è strutturale nelle varie organizzazioni statali. I vasi, appunto, che spiegano le crepe e viceversa. In definitiva, le statistiche confermano che da tempo è in corso una guerra contro i poveri: le sollevazioni di questo ottobre 2019 sono sacrosante resistenze.

 

 

 

La guerra alla memoria

 

Qualcuno ha detto che l’apparato democratico cileno farebbe invidia a centinaia di altri paesi. Qualcun altro, invece, di fronte all’annuncio del coprifuoco e allo schieramento dei militari in strada, ha ricordato i tempi del colpo di Stato e della dittatura di Pinochet. In poco più di due settimane, l’apparato democratico cileno ha fatto 19 morti, più di mille feriti per arma da fuoco, oltre 3000 arrestati e diversi casi di tortura e violenza sessuale. Scenari repressivi simili si sono verificati nelle altre geografie in rivolta.

 

Anche se non si tratta di numeri e di statistiche, la fotografia è inequivocabile: i carri armati schierati a difesa dei sistemi cosiddetti liberal-democratici sono una componente funzionale e indispensabile alla struttura, mentre le istituzioni di tradizione e matrice fascista insite in essa sono complementari alle politiche economiche neoliberiste. Un binomio questo che in Cile era già stato messo in atto dallo stesso Pinochet.

 

La crepa è profonda e ancora le sue radici in sistemi autoritari di razzismo ed esclusione, a dimostrazione che è in atto una guerra contro la memoria da parte di chi cerca di cancellare dal discorso politico le responsabilità storiche. A resistere, i popoli indigeni in Ecuador, da secoli vittime di discriminazioni, oppure i giovani cileni e buona parte della società civile, che chiedono una nuova costituente, inchieste di verità e giustizia per i crimini del passato e la fine di ogni continuità con la dittatura.

 

 

 

Le rivolte

 

Qualcuno ha detto che sono disorganizzate, che ci troviamo nella mondializzazione delle rivolte spontanee, nuovo segno dei tempi. E che forse anche per questo verranno recuperate, riassorbite in quei sistemi liquidi tanto quanto loro. Qualcun altro ha detto che sono dei logaritmi economici, strascichi della crisi del 2008. In molti avanzano invece una speranza, ma per parlarne è ancora presto. Contesti, soggetti e situazioni: sta a noi creare altre costanti, prime fra tutte l’ internazionalismo e la solidarietà. Perché come dicono gli zapatisti, in basso e a sinistra si trova il cuore, mentre come scriveva il Subcomandante Marcos, “la dignità non è altro che la memoria che vive”*.

 

* La historia de la medida de la memoria, Messico, 1998.

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