Economia democratica o barbarie

di Damiano Bardelli

 

Il capitalismo è davvero il sistema socioeconomico migliore a cui l’umanità possa ambire? Ci avevano promesso che la generalizzazione del libero mercato su scala mondiale e l’allentamento delle leggi che ne regolavano gli eccessi avrebbero generato un modello di prosperità sostenibile ed universale.

E invece eccoci qui: il capitalismo ha nuovamente prodotto stagnazione (o addirittura regressione) del potere d’acquisto, disuguaglianze crescenti, crisi finanziarie, erosione dei diritti democratici, rigurgiti nazional-populisti e, soprattutto, ci ha portati al collasso climatico imminente. Di fronte a questo quadro inquietante, è ora che la sinistra torni a ribadire che un altro mondo è possibile – un mondo dove il capitalismo sia solo un ricordo del passato e l’economia, come la politica, sia sottomessa ad un controllo democratico e popolare.

 

L’urgenza della crisi sociale e ambientale che stiamo vivendo ci impone di essere ambiziosi. Le istituzioni, le infrastrutture e lo stile di vita dei paesi industrializzati devono essere trasformati rapidamente e radicalmente se si vuole evitare il collasso della biosfera. Un cambiamento radicale non è solo necessario – è inevitabile. Quello che resta da vedere è in che direzione, a che prezzo e soprattutto a beneficio di chi questo cambiamento avrà luogo.

 

La destra nazional-populista dei vari Salvini e Trump propone di costruire un mondo dove gli sfruttatori, protetti dai loro muri, possano continuare ad approfittare delle risorse degli sfruttati. I sostenitori del capitalismo neoliberale globalizzato, da Renzi a Macron, insistono con l’agenda politica di deregolamentazione dell’economia nell’illusione che la “mano invisibile” possa risolvere tutti i nostri problemi – e intanto, come ci ricorda Greta Thunberg, la nostra casa è in fiamme. C’è quindi urgentemente bisogno di un terzo polo alternativo che ambisca a costruire una società ad impatto climatico zero, basata sui bisogni delle classi e dei popoli che pagano il prezzo del sistema attuale, e che partecipi alla ridefinizione dei concetti di ricchezza, di mercato e di bene comune per un XXI secolo nel quale sostenibilità e bisogni di ogni forma di vita – umana e non – siano in armonia (al riguardo, si veda anche Mathew Lawrence, “Owning the Future”, “Tribune”, 26 aprile 2019).

 

Mettere delle pezze al capitalismo, come si ostinano a fare la socialdemocrazia e la sinistra liberale, non basta. Ridurre le disuguaglianze, ripartire più equamente la ricchezza, tassare maggiormente gli alti redditi e le transazioni finanziarie per assicurare che tutte e tutti possano vivere dignitosamente: le parole chiave che hanno guidato la sinistra occidentale dalla crisi finanziaria del 2008, sull’onda lunga di movimenti sociali come Occupy Wall Street e di successi editoriali come il saggio di Thomas Piketty “Il capitale nel XXI secolo” (2013), non sono sufficienti. Così come non è sufficiente rilanciare i consumi seguendo una dottrina keynesiana inadatta ai problemi del nostro tempo. Anziché limitarci a denunciare i “sintomi“ di un sistema socioeconomico perverso e insostenibile, intrinsecamente basato sullo sfruttamento degli individui e delle risorse naturali, è più che mai urgente andare alla radice del problema, occupandoci delle “cause” dei mali a cui siamo oggi confrontati. Il capitalismo non può essere salvato dalle sue tendenze autodistruttrici: ce lo insegnano tanto la storia quanto l’analisi dei suoi meccanismi intrinsechi (per chi non l’avesse ancora fatto, è ora di andare a rileggersi Marx). Il massimo a cui si può ambire è un nuovo ciclo di espansione che si concluderà inevitabilmente nella prossima crisi economica globale o nella prossima guerra tra superpotenze arrivate al massimo potenziale di crescita entro i limiti posti dal contesto geopolitico esistente. Sempre che il collasso ambientale non avvenga prima, trascinando con sé la società come la conosciamo.

 

Il capitalismo rappresenta un paradosso democratico: il suo sviluppo ha promosso l’emergenza di forme inedite di libertà e di democrazia, ma al contempo impedisce a queste ultime di esprimere pienamente il loro potenziale (Erik Olin Wright, “But at Least Capitalism is Free and Democratic, Right?”, “Jacobin”, 4 dicembre 2016). In una società capitalista, il potere decisionale è nelle mani di pochi privilegiati perché l’economia, al contrario della politica, non è controllata democraticamente. Uno degli elementi fondanti del capitalismo, infatti, è che i detentori di capitale hanno il diritto di decidere come investire (o disinvestire) i loro fondi esclusivamente in funzione del loro tornaconto personale. Il che costituisce un deficit democratico considerevole, visto che delle decisioni come quella di una multinazionale di delocalizzare la produzione di alcuni settori strategici, o di un’azienda fornitrice di energia di ricorrere ai combustibili fossili, o di una banca di non investire più in attività economiche che sostengono la vita di una regione o di un paese, possono avere un impatto devastante sulla vita di milioni – e a volte miliardi – di individui senza che questi possano farci nulla. Senza dimenticare che il potere economico permette agli ambienti padronali e della finanza di imporre il loro volere in sede politica, sia attraverso la minaccia di spostare la sede fiscale delle loro attività o di disinvestire nel caso un governo attuasse delle politiche contrarie ai loro interessi, sia attraverso la loro diretta partecipazione in strutture tecnocratiche sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale o l’Unione Europea, sia grazie ai loro legami personali con politici e governanti.

 

L’unica soluzione è andare oltre il capitalismo, rivendicando una profonda trasformazione del sistema di produzione della ricchezza che trasferisca il potere decisionale nelle mani della collettività, togliendolo alle forze di mercato e quindi, indirettamente, alle banche d’investimento, alle multinazionali e agli altri attori transnazionali che oggi dominano i mercati e influenzano in modo decisivo le nostre istituzioni politiche. Oggi la società è subordinata ai bisogni dell’economia. Domani, attraverso questo processo di democratizzazione, arriveremo finalmente ad un’economia subordinata ai bisogni della società.

 

Ma cosa s’intende, più concretamente, quando si parla di “democratizzare l’economia”? Principalmente, di ridistribuire il potere economico, in modo che sia controllato da tutte e da tutti – proprio come in una sana democrazia il potere politico è controllato dalla collettività. Questa ridistribuzione del potere economico può prendere diverse forme, sia che si tratti di coinvolgere i salariati nel controllo delle loro aziende, di permettere alle autorità politiche di sostenere le attività economiche locali, responsabili e sostenibili proteggendole dalla concorrenza delle multinazionali, d’incoraggiare la forma della cooperativa, facendone la norma, o di porre sotto controllo collettivo i settori economici d’interesse pubblico (trasporti, energia, telecomunicazioni, sanità, settore agroalimentare, industria farmaceutica, banche d’investimento). Insomma, democratizzare l’economia vuol dire permettere alla collettività di definire i limiti entro cui può muoversi l’economia e i settori nei quali investire, ma anche includere le lavoratrici e i lavoratori nei processi decisionali che concernono il loro benessere. Le soluzioni possibili sono innumerevoli e andranno definite in funzione delle dinamiche esistenti e delle risorse disponibili: i modelli di produzione postcapitalisti sono ancora tutti da scoprire.

 

Nell’ultimo secolo e mezzo, l’economia di mercato ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di regolarsi da sola: più l’attività economica è deregolamentata, più i detentori di capitale investono esclusivamente in funzione dell’immediata redditività – una tendenza rinforzata dalla finanziarizzazione. Per passare rapidamente da un’economia estrattiva che produce ricchezza attraverso lo sfruttamento della natura e degli esseri umani ad un’economia sostenibile e orientata ai bisogni della società, bisogna permettere alla collettività di mettere dei paletti e definire da quali attività è legittimo trarre dei profitti. Il che potrebbe implicare ad esempio dei divieti puri e semplici, ma anche una maggiore pressione fiscale per quelle aziende che distruggono le risorse naturali e il tessuto sociale, ripagando così i costi collettivi della loro attività.

 

Al contempo, le comunità devono avere i mezzi necessari per investire in quei settori che portano benessere a livello locale, rendendo l’economia più stabile attraverso il sostegno all’economia reale – oggi languente – e la creazione di posti di lavoro per la popolazione residente. In Svizzera, questo potrebbe avvenire affiancando alla Banca nazionale un istituto d’investimento posto sotto il controllo della Confederazione e dei cantoni, avente per vocazione principale il sostegno alle piccole e medie imprese e orientato ad una forma di Green New Deal, come quello proposto negli Stati Uniti da Alexandria Ocasio-Cortez.

 

A sinistra c’è chi ha già iniziato a muovere dei primi, timidi passi in questa direzione. Sulla spinta del think tank Common Wealth, recentemente fondato da un gruppo di giovani economisti di ispirazione marxista, il Partito laburista britannico ha messo al centro dei suoi progetti di governo la democratizzazione del controllo dei mezzi di produzione. Il piano elaborato dal partito nel 2018, per quanto poco ambizioso, segna una chiara svolta rispetto alla politica economica portata avanti dai laburisti negli ultimi trent’anni e prevede delle misure concrete che permettano agli impiegati di avere maggiore voce in capitolo nei processi decisionali delle loro aziende, per esempio riservando loro delle quote importanti di dividendi. Questo permetterebbe non solo di ripartire più equamente la ricchezza prodotta, ma anche di aumentare il numero di azionisti interessati più al benessere a lungo termine dell’azienda che ad una massimizzazione dei profitti nell’immediato. Le idee dei laburisti, nel frattempo, hanno fatto scuola e hanno attraversato l’Atlantico, visto che Bernie Sanders le ha riprese e integrate nelle sue promesse di campagna (Mathew Lawrence, “Rethinking the Means of Production: How Employee Ownership Went Global”, “NewStatesman”, 30 maggio 2019). I progressisti occidentali – quelli di fatto, e non i liberali di sinistra che da noi ne usurpano il nome – non si accontentano più di mettere delle pezze al capitalismo: sono finalmente disposti a stravolgere i modelli di proprietà capitalisti.

 

Da noi però il tema stenta a fare breccia, complice non solo il consueto conservatorismo elvetico, ma anche lo scarso coraggio della sinistra governativa. Anziché prevedere delle misure concrete come quelle delineate dalla sinistra socialista anglosassone, PS e USS si sono per ora limitati ad una generica presa di posizione comune nella quale auspicano un incoraggiamento della cogestione. Scelta che sembra destinata più a tranquillizzare e sedare le rispettive basi che ad ottenere dei cambiamenti concreti nell’economia. Il momento di agire è però adesso: non c’è tempo per tergiversare. Sta quindi a quelle forze politiche intenzionate a portare il cambiamento di cui la nostra società e il nostro pianeta hanno bisogno di approfondire il tema della democratizzazione dell’economia e di proporre delle misure concrete per attuarla. I partiti che compongono l’alleanza Verdi e Sinistra alternativa – a differenza dei vertici del PS – sono ben consci dell’insostenibilità del nostro sistema economico, sia sul piano sociale che ambientale. Abbiamo quindi il dovere di farci avanguardia nel dibattito sulla democratizzazione dell’economia in Svizzera, in dialogo con le forze sindacali, ma anche con accademici ed economisti. Perché un cambiamento radicale non potrà avvenire se non si lavorerà in sinergia, mettendo in dialogo lavoratori, ceto medio e intellettuali.

 

La democratizzazione dell’economia può apparire oggi come un’inimmaginabile utopia, ma in altri tempi – quando si parlava di “socializzare i mezzi di produzione” – era considerata come un obiettivo realista, e soprattutto come l’unico obiettivo che contava davvero – anche da parte delle frange più moderate della socialdemocrazia. Poi il crollo dell’URSS e la logica della “fine della storia” hanno portato la sinistra a ridurre l’orizzonte del possibile all’attuale sistema socioeconomico occidentale, rottamando Marx a beneficio del liberale Keynes. Ma ora che le maschere sono cadute e il capitalismo ha rivelato nuovamente la sua natura insostenibile, è ora di tornare ad ambire ad un altro sistema socioeconomico, controllato democraticamente e guidato dai bisogni della collettività e della natura. Se l’umanità vuole avere un futuro, questa è l’unica via percorribile

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