di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente
Il silenzio è sceso sull'invasione turca della Siria settentrionale, il Rojava. Certo la società civile internazionale non dimentica il popolo curdo vittima di un brutale attacco militare da parte dei soldati turchi e dei mercenari siriani agli ordini del presidente turco Recep Tayyib Erdogan.
Ma governi, parlamenti e rappresentanti politici dell’Occidente “democratico e liberale” hanno già smesso di denunciare i crimini compiuti da Ankara decisa a mettere fine a qualsiasi entità curda lungo il confine con la Siria e a creare una zona cuscinetto lunga un centinaio di chilometri e profonda 32 km all’interno del territorio siriano. Lì saranno mandati i due milioni di rifugiati siriani scappati in Turchia dopo il 2011.
L’incontro tra Donald Trump ed Erdogan negli Usa è l’immagine più compiuta del tradimento fatto da Washington ai curdi siriani che ha addestrato, armato e appoggiato militarmente nella battaglia che le Forze democratiche siriane (a guida curda), per anni, e pagando un tributo di 11mila morti, hanno combattuto per abbattere lo Stato Islamico. Gli Usa promettevano pieno appoggio alle aspirazioni curde ma al momento di compiere una scelta tra le “esigenze” della Turchia membro della Nato e strategica nella geo politica del Vicino Oriente e quelle di un popolo senza uno Stato che reclama diritti, non hanno esitato a farsi da parte e a dare il via libera all’operazione militare di Ankara “Sorgente di pace” contro i curdi.
La gente del Rojava non ha mai creduto sino in fondo alle promesse americane. Si aspettava la coltellata alla schiena ma non così rapida e prima dell’incontro tra Erdogan e Trump. Anche perché si stava discutendo ancora della realizzazione della “safe zone” (in territorio siriano) che avrebbero dovuto pattugliare insieme le truppe turche e americane. La Federazione del Nord curda non aveva mai accettato la “safe zone” del tutto. Sapeva che pretendendola Erdogan mirava a mettere fine all’autonomia curda in Siria che considerava una espressione politica locale dei “nemici” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Ma l’aveva agevolata su pressione di Washington tanto da evacuare i combattenti delle Fds e delle unità Ypg e Ypj dalle città di confine. Trump, conosciuto per i suoi atti estremi e improvvisi, ha detto basta e ritirato i soldati Usa nel nord della Siria, dando così luce verde all’intervento militare turco.
Ma Erdogan ha voluto mettere fine anche all’esperienza del Confederalismo democratico, il modello teorizzato dai curdi di coesistenza tra etnie e fedi, di uguaglianza sociale e di genere, ammirato e studiato in tutto il mondo. «Arabi che ospitano curdi, cristiani che ospitano musulmani, le tribù arabe che hanno inviato 50mila combattenti e lo stesso hanno fatto cristiani, armeni, assiri: è questa la vera vittoria del Confederalismo democratico, un modello di convivenza che né Trump né Erdogan possono sconfiggere», spiegava qualche settimana fa in un’intervista, Nilufer Koc, co-presidentessa del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).
La fine dell’alleanza con Washington, sulla quale i dirigenti del Rojava dovranno riflettere bene per evitare di ripetere errori che si sono rivelati drammatici, ha portato all’intesa curda con Damasco - favorita dalla mediazione della Russia, ormai attore principale su gran parte della scena mediorientale - che ha visto le truppe siriane tornare dopo anni sul confine con la Turchia. E anche all’abbandono curdo, almeno in parte, della Coalizione dell’opposizione siriana anti-Bashar Assad, che ha applaudito all’offensiva turca “contro il terrorismo” e non ha condannato gli abusi e i crimini compiuti nei centri abitati curdi di Sere Kaniyeh e Tal Abiyad dai mercenari del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano agli ordini di Erdogan. Sul terreno le forze combattenti curde sono dovute arretrare per chilometri dalla linea di confine, sulla base dei termini della “tregua” decisa da Usa e Turchia che ha soddisfatto un po’ tutti: gli Usa che hanno subito annunciato la fine delle sanzioni annunciate da Trump contro Ankara; l’Iran convinto che si tratti di un passo verso la stabilità; il presidente Assad che finalmente vede sventolare la bandiera siriana sul confine; e il segretario generale della Nato, Stoltenberg felice che non si tocchi la Turchia, pilastro della Nato nella regione.
Non è facile valutare quanto sia stata convinta o imposta dalle circostanze la scelta dei leader curdi di stringere l’alleanza con Damasco, dalla quale otto anni fa si erano allontanati per unirsi all’opposizione siriana. Nilufer Koc sottolinea nella stessa intervista che “Negli ultimi otto anni l’Amministrazione autonoma (del Rojava) ha sempre ripetuto di essere parte della Siria, non c’è mai stata l’intenzione di un’indipendenza (piena). La porta del dialogo è sempre rimasta aperta con l’obiettivo di farci riconoscere dal governo nell’ambito di un processo di democratizzazione”. Secondo la co-presidentessa del Knk “L’attuale dialogo tra Rojava e Damasco arriverà sicuramente a un punto politico, quello attuale è un accordo militare che dovrà tradursi in una soluzione politica”. Koc, più di tutto, è convinta che il Confederalismo democratico non sia finito a causa dell’invasione turca. “E’ un modello democratico che non danneggia nessuno – ha rimarcato - non minaccia i confini internazionalmente riconosciuti né la sovranità della Siria. È un contributo alla sua democratizzazione. Nessuno, arabi, curdi, cristiani, musulmani, intende rinunciarci: hanno sperimentato la libertà”.
L’ottimismo della leader curda si scontra con la complessità della situazione sul terreno. Erdogan è abile a nascondere le sue mosse ed agisce sui vari tavoli della diplomazia promettendo tutto e il contrario di tutto: è alleato (intermittente) di Washington e allo stesso tempo di Mosca e Teheran sulla gestione dello scenario siriano. La Casa Bianca teme ad alzare troppo la voce: finirebbe per gettare definitivamente Erdogan tra le braccia di Putin che nel frattempo ha rafforzato la propria influenza nell’area dopo essere intervenuto militarmente in appoggio alla Siria nel 2015. Non è passato inosservato, tra le altre cose, il recente viaggio del presidente russo in Arabia saudita e negli Emirati arabi uniti, due paesi centrali per le strategie statunitensi nell’area del Golfo. E non è un mistero che Mosca stia lavorando alla riconciliazione tra Arabia saudita e Iran. Possibilità per ora lontana ma che se si realizzasse darebbe un ulteriore schiaffo alla politica statunitense in Medio Oriente.
L’analista e giornalista esperto di Medio Oriente Marco Santopadre spiega che in questo quadro, molto è legato alla tenuta dell’accordo di Astana sulla Siria raggiunto da Turchia, Iran e Russia. “Se i turchi si fermeranno - scrive - potranno probabilmente continuare a occupare una consistente striscia di territorio interna alla Siria ed Erdogan potrà vendere alla sua opinione pubblica l’ennesimo colpo inferto “ai terroristi curdi” e il recupero di una parte di quel suolo siriano che Ankara rivendica come proprio da quasi un secolo”. Allo stesso tempo, aggiunge Santopadre, “se la Turchia dovesse però spingersi oltre, i fragili equilibri finora raggiunti potrebbero saltare” e questo complicherebbe la posizione di Mosca che si troverebbe a “dover gestire contemporaneamente le alleanze con due paesi - la Turchia e la Siria - ormai contrapposti. E le conseguenze per le aspirazioni curde sarebbero ancora più pesanti di quelle in corso al momento.
Su questo palcoscenico recitano il proprio ruolo anche altri attori. Israele sostiene di aver offerto aiuti a più livelli ai curdi nel nord della Siria dopo il ritiro degli Stati Uniti dalla zona, ha affermato a inizio mese alla Knesset (Parlamento) la viceministra degli esteri israeliana Tzipi Hotovely, spiegando che lo Stato ebraico sta assistendo i curdi siriani poiché li vede come contrappeso all’influenza iraniana. “Israele ha ricevuto richieste di assistenza, principalmente nel campo diplomatico e umanitario. Ci identifichiamo con la profonda angoscia dei curdi e li stiamo assistendo attraverso una serie di canali”, ha detto Hotovely. La viceministra non ha fornito particolari sull’assistenza israeliana ai curdi. Ha però spiegato che durante il “dialogo con gli americani …(noi israeliani) affermiamo la nostra verità riguardo ai curdi …e siamo orgogliosi di prendere una posizione accanto al popolo curdo“. “Israele – ha proseguito Hotovely – ha un interesse rilevante nel preservare la forza dei curdi e delle altre minoranze nell’area della Siria settentrionale come elementi moderati e filo-occidentali”. Il crollo dell’entità curda nella Siria settentrionale, ha detto la viceministra, “è uno scenario negativo e pericoloso per quanto riguarda Israele. È assolutamente chiaro che un evento del genere provocherebbe un rafforzamento degli elementi ostili nell’area, guidati dall’Iran”.
Israele mantiene legami militari, di intelligence e commerciali con i curdi sin dagli anni ’60, in particolare con quelli in Iraq, che considera una sorta di cuscinetto opposto ai comuni nemici. E in una rara espressione di dissenso aperto con Trump, il primo ministro israeliano Netanyahu lo scorso 10 ottobre ha criticato il passo indietro fatto dagli Stati uniti ed offerto aiuti al “nobile popolo curdo”.
Dal Rojava non sono giunte conferme alle parole di Hotovely ma in ogni caso, alla luce del tradimento Usa, i leader curdi sono chiamati a ripensare alle alleanze che hanno messo in piedi a sostegno della loro causa, se vorranno salvare l’esperienza del Confederalismo democratico. Washington e i suoi alleati nella regione hanno a cuore solo i loro interessi strategici e non quelli dei popoli oppressi.
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