CCL vendita, cronistoria di un illusorio baratto 

di Maurizio Montesi

 

Con l’anno nuovo, migliaia di salariate e salariati in Ticino avranno delle condizioni peggiori senza nessun corrispettivo vantaggio. Sfatiamo subito una fake news: l’entrata in vigore della nuova legge cantonale sugli orari di apertura dei commerci non si riduce alla banalizzata mezz’oretta.

Il passaggio dalle 18.30 alle 19 per quattro giorni, fa due ore. Aggiungiamo il cambiamento del sabato dalle 17 alle 18.30, e le ore settimanali in più diventano tre e mezzo.

 

Il 2 gennaio, Coop ha annunciato che estenderà i suoi orari in funzione delle nuove possibilità offerte dalla legge. I suoi dipendenti rientreranno a casa più tardi tutti i giorni lavorativi, senza alcun beneficio. Il nuovo CCL della vendita non li riguarda, essendo le loro condizioni migliori di quelle uscite dal tavolo voluto dal governo. Va inoltre specificato che da diversi anni i dipendenti della Coop non ricevono aumenti salariali.

 

Ai nuovi orari, si adegueranno inoltre anche Migros, Manor, Denner, Lidl, Aldi e tutte le grandi catene di distribuzione presenti nei centri commerciali cantonali. Tutte le dipendenti avranno giornate lavorative più lunghe alle medesime condizioni precedenti. Anzi, la loro situazione peggiorerà ulteriormente con le deroghe contenute nella nuova legge e già pubblicate dal governo sul foglio ufficiale a fine dicembre. Su 115 comuni ticinesi, il governo ha autorizzato le aperture dei commerci sette giorni su sette fino alle 22.30 in una sessantina di comuni d’estate e in un’altra trentina d’inverno, definendole località turistiche.

 

Di questo dato di fatto, ossia il peggioramento delle condizioni di vita e lavoro di migliaia di persone senza alcun progresso, siamo tutti colpevoli. Si può essere colpevoli da consumatori andando a far la spesa all’ultimo minuto, lo può essere il sindacato Unia per non esser riuscito a impedirlo o a strappare perlomeno qualche contropartita o lo possono essere i movimenti politici nel non aver tematizzato sufficientemente la questione con la dovuta importanza. È un fallimento sociale, politico e sindacale collettivo. Ma le responsabilità hanno gradi diversi.

 

Ricapitoliamo come si sia arrivati a questo punto. Dopo anni di tentativi andati a vuoto poiché sonoramente bocciati dal popolo, l’ultimo assalto alle aperture delle serrande è andato in porto qualche anno fa. La grande distribuzione e la presunta anima sociale del PPD si accordano sul baratto per superare lo scetticismo degli elettori. L’idea è di accettare gli orari estesi in cambio di un CCL di settore. In Parlamento, ne sono promotori gli esponenti dell’Ocst. Grazie al sostegno del mondo economico, il baratto viene rapidamente approvato. Il sindacato, Unia, raccoglie le firme e il progetto di legge va in votazione popolare. La “santa alleanza” scatena allora la potenza di fuoco mediatica di cui dispone, e il baratto CCL-orari passa indenne lo scoglio popolare.

 

A questo punto, il pacco va riempito di contenuti. Parte dunque la pantomima delle trattative del CCL, guidate dal cerimoniere Vitta. In questa prima parte dello spettacolo, la grande distribuzione detta le regole di un contratto a cui non sarà sottomessa, mentre il ruolo di comparse viene svolto da un’organizzazione che dovrebbe rappresentare le venditrici (Ocst) e da due finte organizzazioni dei lavoratori (Sindacati indipendenti ticinesi e Società svizzera degli impiegati di commercio), fondamentali per garantire le maggioranze e neutralizzare così l’opposizione di Unia.

 

Nel giro di pochi mesi, la messinscena si conclude e il pacco “napoletano” è confezionato. Un CCL che parte da un salario minimo di 3'200 e con irrisori benefici per le lavoratrici, in cambio di proficui nuovi orari per la grande distribuzione. Tanto per dare un’idea della consistenza del pacco, nel ramo è già in vigore da anni un contratto normale di lavoro il cui salario minimo è inferiore di cento franchi al CCL pattuito al tavolo governativo. La differenza tra contratto normale e CCL frutto di una trattativa è sostanziale. Il contratto normale viene imposto dal governo quando la Tripartita constata il dumping salariale in un determinato settore. Ottenere cento franchi in più in cambio di un’estensione delle giornate lavorative non è certo un affare per chi lavora.

 

Ocst svende dunque quel rimasuglio di anima sociale pur di avere della nuova linfa verde derivante dalle quote sindacali pagate dalle lavoratrici. Qui occorre forse una spiegazione tecnica. Le migliaia di venditrici contribuiranno obbligatoriamente con 60 franchi all’anno per la Commissione paritetica. La grande distribuzione invece verserà solo 50 franchi per azienda. Tolte le spese di gestione della commissione, dei controlli e della formazione, il cospicuo gruzzolo accumulato sarà poi suddiviso fra i sindacati firmatari del CCL in base alla quota d’affiliazione. Stando larghi, si può ipotizzare che i sindacati padronali Ssic e Sit abbiano una qualche decina d’iscritti nella vendita. I restanti 12.000 salariati del settore rappresentano per l’Ocst un bel bacino di potenziali iscritti, visto che Unia ne è esclusa per essersi rifiutata di firmare quel contratto peggiorativo.

 

Chiarito prezzo e ruolo dell’Ocst nell’affare, vediamo come si sviluppa la trama. Finita la pantomima del CCL, si arriva al surreale. Per far entrare in vigore il CCL, ci vogliono i famigerati quorum, ossia la maggioranza più uno dei negozianti. L’ufficio statistico ne ha censiti un numero vicino ai 3'000. Poiché è difficile convincere i piccoli commercianti a sottoscrivere il contratto, ben consci che i nuovi orari beneficeranno solo alle grandi aziende, il quorum fa fatica ad esser raggiunto. Allora, ecco il colpo di scena: la statistica è messa in dubbio. I diretti interessati ne stileranno una nuova. Il quorum dei negozianti scende di parecchio e alla fine del procedimento le sottoscrizioni supereranno di pochissimo il quorum. Governo e Seco si affrettano ad approvarlo. Unia chiede l’accesso ai dati, in particolare ai negozi firmatari. Niet, risponde il Vitta. Nessuna verifica indipendente è autorizzata. Non resta che la via del ricorso al pacco “napoletano” ancora chiuso. Un ricorso che potrebbe ritardare, se non annullare, l’estensione degli orari d’apertura.

 

Apriti cielo. Ecco entrare in scena i giullari di corte, sempre pronti per principio a difendere la grande distribuzione. A guidar le danze, il gruppo Corriere del Ticino. Dapprima con un sibillino buona domenica del Caffè, seguito a pochi giorni di distanza dall’editoriale di Gianni Righinetti sull’ammiraglia del gruppo. In sostanza, il gruppo CdT mette alla berlina il sindacato Unia per voler rompere le uova nel paniere col ricorso «per la semplice mezz’oretta di apertura». È la fake news sostenuta dal Righinetti, autore dell’articolo condannato dal Consiglio della stampa per aver messo all’indice gli agenti di Argo 1 che avevano avuto il coraggio di denunciare i soprusi dell’agenzia. Un Corriere sempre più simile a Libero del decrepito Feltri, pluricondannato per diffamazione.

 

Il resto è ancora da scrivere, ma dubitiamo che Vitta, grande distribuzione e Ocst abbiano il coraggio di concedere a Unia la documentazione della procedura. La trasparenza in questo cantone è una meta ancora lontana. Senza la documentazione, stabilire la verità sarà difficile persino per il Tribunale federale, che dunque finirà per dare ragione alla Santa Alleanza. Con buona pace per le salariate del cantone.

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