USI, APRIAMO I CORDONI DELLA BORSA

di Franco Cavalli

 

In uno dei suoi regolari commenti sul Corriere del Ticino, l’avvocato Tito Tettamanti (17 gennaio) lamenta il fatto che l’accorato appello lanciato in dicembre dal rettore dell’USI Boas Erez, affinché l’opinione pubblica (ma sotto sotto sicuramente anche le autorità) si interessi maggiormente dell’università, sia caduto nel vuoto.

Egli attribuisce questo silenzio soprattutto alla complessità del tema: secondo me però questa è una spiegazione solo parziale.

 

Io ritengo che la difficoltà di confrontarsi con il ruolo ed il senso del mondo accademico abbia delle ragioni parecchio più profonde. Credo che l’inconscio collettivo dei ticinesi in gran parte non si è ancora liberato da quell’archetipo secondo il quale noi al massimo possiamo essere dei consumatori, ma non dei produttori di cultura, umanistica ma soprattutto scientifica.

 

Sarebbe sicuramente interessante disquisire in dettaglio sulle cause storiche che han generato questo archetipo: non potendolo evidentemente fare qui, cerco di semplificare al massimo. Tralascio quindi vari episodi importanti, come per esempio la cacciata al nord della parte migliore della nostra nascente borghesia per opera della Controriforma.

 

Tre secoli di colonizzazione da parte dei Cantoni svizzero-tedeschi ci hanno lasciato un grosso complesso di inferiorità ed una borghesia poco intraprendente (come è capitato per esempio anche in America Latina con la borghesia compradora), che dopo il 1803 e per almeno 150 anni non ha prodotto un gran che, limitandosi a trar profitto dagli affari con gli ex colonizzatori e dal vendere tutto il possibile: gli emigranti, le acque, il territorio eccetera. Quando, dopo la Seconda guerra mondiale, c’è stata l’irruzione del turismo e dei capitali italiani trafugati nelle nostre banche, siamo quindi passati improvvisamente da una povera società agricola ad una postindustriale, senza aver mai avuto una vera fase industriale, come è stato il caso in quasi tutto il resto della Svizzera. Si è quindi creata in tempi molto brevi un’élite abituata ai guadagni facili e senza che ci sia stato un processo di selezione naturale. Questo mondo ha quindi poca dimestichezza con l’università, sia per quanto riguarda il suo ruolo di fonte di conoscenze, sia per quello di motore dello sviluppo della società anche in senso economico.

 

Non dimentichiamoci che un primo progetto di università, ancorché non entusiasmante, fu respinto in votazione popolare e che nel 1996 la nascita dell’USI fu possibile solo grazie alla coincidenza temporale di due eventi. Da una parte una profonda crisi economica, che fece capire a molti che il ciclo post-bellico, basato sui facili guadagni, era ormai in via di conclusione e che bisognava cercare nuove soluzioni. D’altra parte, senza voler entrare in dettagli complessi e addirittura delicati, politicamente si creò una situazione di inciucio quasi irripetibile, con un’alleanza tra Lega, PLR e Comunione e Liberazione, che bloccò qualsiasi velleità di referendum. Orme ed ombre di quel patto, che alcuni ritennero scellerato, le ritroviamo fino ad oggi. Anche se non credo che queste siano tra le ragioni che spiegano il poco interesse per un dibattito sul tema.

 

La situazione però cambierebbe se il Governo cantonale mostrasse finalmente di interessarsi a fondo delle nostre strutture accademiche. Ciò non è purtroppo il caso, come ho potuto constatare anche di persona in diverse occasioni, soprattutto nelle discussioni che hanno preceduto la decisione di realizzare una Facoltà di biomedicina, che attualmente, sia detto per inciso, rappresenta quasi sicuramente il progetto principale per lo sviluppo del nostro cantone, anche da un punto di vista economico.

 

Ma a parlare di questo disinteresse sono incontrovertibilmente le cifre. Il nostro Cantone investe molto, ma molto meno di quanto facciano altri Cantoni e non penso neanche ai grandi Cantoni universitari, come Zurigo o Ginevra. Prendo per esempio il caso di un Cantone che ha la metà della popolazione del Ticino e gravi problemi economici: Neuchâtel. L’USI riceve dal Cantone, compresi anche gli istituti affiliati IRB e IOR, secondo la statistica federale 23,4 milioni l’anno, mentre Neuchâtel versa alla sua università 47 milioni. In percentuale dei costi quindi il contributo cantonale è del 18% per l’USI e del 36% a Neuchâtel, una delle varie ragioni che spiegano, ma non giustificano, le tasse di iscrizione immensamente più onerose all’USI che non in tutte le altre università svizzere. Per far capire meglio la pochezza di questo finanziamento cantonale, mi permetto di aggiungere altri due elementi. Da una parte l’anno scorso l’USI ha conseguito finanziamenti dal Fondo nazionale svizzero per circa 20 milioni grazie a grants competitivi, di cui quasi la metà da parte di IOR e IRB. E tralascio i grants europei che raggiungono una somma non di molto inferiore. Ma l’elemento più straordinario è il risultato della perizia sulla Facoltà di biomedicina che è stata commissionata a Mauro Dell’Ambrogio, ex segretario di Stato alla ricerca e conosciuto in tutta la Svizzera per essere un risparmiatore estremo. Da segretario di Stato egli aveva cercato soprattutto di arginare il vezzo degli ospedali universitari di finanziare le cure correnti dei pazienti usando anche parte dei fondi cantonali versati per la ricerca. A conclusione di questa sua perizia Mauro Dell’Ambrogio arriva alla sorprendente costatazione che in Ticino abbiamo addirittura la situazione contraria: e cioè che per intanto è stato l’EOC, soprattutto con i tagli che gli sono stati imposti, a finanziare la Facoltà di biomedicina, i cui primi studenti arriveranno tra pochi mesi, cosicché sinora tutto il progetto risulta per il Cantone un’operazione a costo zero!

 

Se andassimo a raccontarlo ai ministri delle finanze degli altri Cantoni universitari, non ci crederebbero minimamente. Se la situazione però non cambia, ci potrebbero ben presto essere delle gravi conseguenze per la sostenibilità del progetto di sviluppo della Facoltà di biomedicina, che come ho già detto rappresenta attualmente, ed a medio termine, il progetto principale di sviluppo del cantone. Ecco perché ho intitolato questo contributo «Apriamo i cordoni della borsa». Questo soprattutto in un momento in cui le finanze cantonali stanno bene (senza neanche contare i probabili versamenti straordinari che arriveranno dalla Banca nazionale), tant’è vero che ci si è permessi, secondo me sciaguratamente, di regalare 150 milioni di franchi di entrate fiscali soprattutto ai più abbienti e a coloro che meno ne hanno bisogno.