Cosa c’è in gioco nell’Iowa con Bernie Sanders

di Gian Giacomo Migone

 

Usa 2020. Via alle primarie democratiche per scegliere che sfiderà Trump alle presidenziali. Comunque vada, la sfida del candidato più a sinistra di tutti avrà effetti duraturi anche fuori dagli Stati uniti.

Domani (oggi) i cittadini di un piccolo stato, quello dell’Iowa, nel cosiddetto Midwest degli Stati uniti, scriveranno il primo capitolo di un’elezione presidenziale destinata ad avere larghe e durature conseguenze nel resto del mondo.

 

E non solo perché è in gioco la permanenza alla Casa bianca di un inquilino che – per capirci tra italiani – assomiglia, politicamente e moralmente, a un incrocio tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini con, in più, un controllo, approssimativo ma reale, della più grande potenza distruttiva che abbia visto l’umanità. Ciò che si gioca, a cominciare dal voto delle assemblee popolari dell’Iowa (una forma peculiare di elezione primaria), è anche l’esito di una candidatura del partito democratico alla presidenza degli Stati uniti, quella del senatore Bernie Sanders, ad oggi – secondo una media dei sondaggi d’opinione effettuata dal per nulla benevolo New York Times – collocata a ridosso di quella di Joe Biden, ex vice presidente di Obama, con cui ha impegnato in un testa a testa, per l’appunto nell’Iowa.

 

Quale che ne sia l’esito, per metodo e contenuto, la candidatura di Sanders è destinata ad avere un effetto duraturo, se non sconvolgente, sulla politica statunitense ed europea. Sin dalle precedenti elezioni presidenziali – che, se fosse stato candidato al posto di Hillary Clinton, egli avrebbe vinto, secondo sondaggi d’opinione unanimi – Sanders ha analizzato e denunciato con chiarezza lo strapotere dell’ 1% che antepone la crescita della propria straripante ricchezza a qualsiasi forma di salvaguardia di sopravvivenza ambientale, controllo responsabile della politica estera e militare, diritti al lavoro, livelli anche minimi di sicurezza sociale. A quell’1%, che con pochi spiccioli è in grado di comprarsi buona parte della politica americana, Sanders ha contrapposto un metodo di mobilitazione dal basso, fondato sul volontariato politico e una raccolta di denaro on line che, a differenza di tutti gli altri contendenti (compresa la pur, per alcuni obiettivi, radicale Elizabeth Warren), sin dall’inizio esclude qualsiasi contributo dalle varie lobbies miliardarie, a cominciare da quella a sostegno del governo d’Israele (Sanders è fieramente ebreo e, quindi, scarsamente vulnerabile ad accuse strumentali di antisemitismo quali quelle inflitte a Jeremy Corbyn nel Regno unito).

 

Dichiaratamente socialdemocratico – in un paese ove la parola «socialismo», per ragioni storiche incute più timore di «rivoluzione» – Sanders ha costruito intorno a se un movimento che unisce un’ondata di giovani colti e arrabbiati per la mancanza di prospettive future alla parte più radicale del sindacalismo, intorno ad alcuni chiari obiettivi: un Green New Deal, per una nuova economia sostenibile, sanità pubblica per tutti, salario minimo di 15 dollari, estensione della gratuità dell’istruzione universitaria, separazione della finanza speculativa da quella commerciale secondo la ricetta rooseveltiana. Per pagare tutto ciò egli non si perita di proporre un drastico aumento della tassazione dei redditi più alti – quando, in una trasmissione televisiva gli fu chiesto di precisare il livello delle aliquote, rispose con un sorriso: «Non sono un’estremista come Eisenhower che arrivò all’85%!» – e un’altrettanto drastica riduzione della spesa militare come conseguenza di una politica estera di pace.

 

Poiché una simile impostazione politica non può che suscitare l’ostilità più o meno esplicita di quella che egli non esita a definire the corporate press, la stampa a servizio dei poteri forti economici, ad essa contrappone la forza, l’energia, l’entusiasmo veicolato da internet e dalle piazze, con risultati riflessi da sondaggi d’opinione che lo vedono in continua crescita. L’esito finale della sua candidatura dipenderà dalla relativa efficacia rispetto a una scelta che si fonda su una logica di conquista del voto moderato, come male minore rispetto alla comunque probabile vittoria di Trump. La stessa logica che ha portato la struttura tradizionale del partito democratico a manipolare le regole del gioco nel 2016 e a fortemente volere una procedura di impeachment, pur fondata nel merito, ma destinata alla sconfitta e al sostegno (ma per quanto ?) della claudicante candidatura di Biden. O se, com’è avvenuto nel 2016, prevalga un’altra logica, determinata dalla capacità di una candidatura, quella di Sanders, di determinare la maggiore partecipazione al voto.

 

Quale che sia l’esito finale della campagna elettorale, il movimento fondato da Sanders, sostenuto da Alexandria Ocasio Cortez, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, per citare le più note, è destinato a mettere radici negli Stati uniti e a ispirare, con il dovuto ritardo, persino la sinistra italiana (e europea).

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