di Gigi Galli
Nel cantone Ticino, così come in tutta la Svizzera, i giovani tra i 16 e i 25 anni di origine migrante sono in aumento. Ai giovani di seconda e terza generazione cresciuti nel nostro paese in famiglie provenienti dall’Italia, dal Portogallo e dall’ex-Jugoslavia si aggiungono quelli arrivati dopo l’infanzia dall’America centrale, dall’Eritrea e dall’Afghanistan.
Presentano situazioni molto eterogenee per quanto riguarda la condizione sociale e il background formativo ma sono accomunati da una rappresentazione sociale che li espone, soprattutto nell’ambito lavorativo, alla discriminazione.
La percezione di una differenza legata al suono di un nome, se non alla colorazione appariscente della pelle, continua a generare stereotipi e pregiudizi che vanificano il riconoscimento formale della parità dei diritti. Il potere di discriminare esercitato da chi sta al comando diventa discorso sociale, senza riguardo per le persone singole e il loro vissuto. Gli arbitri, la mancanza di rispetto e le discriminazioni che ne derivano si legittimano sollevando il più delle volte i temi della minaccia sociale. Facendo leva sulle emozioni suscitate da alcuni fatti di cronaca nera, la proclamazione della minaccia sociale si sposa facilmente con il bisogno di rintracciarne la fonte in qualcuno di esterno alla comunità. La qualità del discorso sull’ altro finiscono sempre in qualche modo per influenzarne i comportamenti, come se l’ altro sentisse e seguisse le nostre aspettative.
Il fenomeno delle migrazioni, con riferimento a tutta la popolazione d’origine straniera e non solo a quella formata dalle nuove generazioni, ha spesso indotto a riflettere sulle conseguenze della stigmatizzazione, sui confini dei diritti e sulla capacità effettiva di tutelarli.
Per lungo tempo i migranti sono stati considerati solo nell’adempimento delle loro funzioni (“le braccia”,…), senza molti riguardi per i loro diritti specifici (stabilità dei permessi, mobilità sociale, ricongiungimenti familiari, mediazione interculturale, accesso ai servizi,…). La tolleranza nei loro confronti viene dissimulata da un certo grado di supposta superiorità di diritto e di fatto. Implica inoltre una soglia oltre la quale scatta la reazione di chiusura e l’incitamento a misure di respingimento, definite soavemente “misure di dissuasione”. I migranti vanno bene fin tanto che fanno comodo poi, se necessario, si invocano misure di salvaguardia a favore dei locali. La parola d’ordine leghista “prima i nostri” è la metafora nostrana di muri materiali che Trump e Netanyahu hanno costruito per “difendere” i loro confini e affermare la loro supremazia.
Permangono e si sviluppano sempre più, accanto a queste pratiche di diritto differenziato, di inclusione e di esclusione, atteggiamenti ostili e pregiudizievoli nei confronti dei migranti (sopravvalutazione del numero, catalogazioni negative, esasperazione di differenze tra noi e loro,…) accompagnati dall’identificazione della loro particolare provenienza. Oggi il bersaglio privilegiato della stigmatizzazione è costituito dalla giovinezza. I giovani, soprattutto i giovani africani, latini, mediorientali e balcanici appaiono come figure confinate in identità artificiali.
Il mondo dei comportamenti giovanili è d’altronde lo scenario più ricorrente di una riproduzione quotidiana di stereotipi. La cronaca offre spunti in abbondanza. Ritrovi e risse in discoteca, bullismo nelle scuole, tifoserie ultrà negli stadi, violenze di bande, teppismo urbano, binge drinking , scorribande di skaters, manifestazioni di culture estreme, graffiti murali e proteste no global formano un unico amalgama dentro cui è difficile districarsi e attribuire, come si dovrebbe, significati distinti e comprensibili.
L’intera popolazione giovanile si trasforma nell’immaginario collettivo da promessa/risorsa per il futuro in area di disagio, se non addirittura in minaccia potenziale per la sicurezza e la coesione nazionale. Tutto questo è in gran parte dovuto al fatto che i comportamenti giovanili di oggi presentano profili molto sconosciuti ed elementi di incomprensione che facilmente vengono assimilati a ciò che i media chiamano “nuova devianza giovanile”.
Tralasciando di soffermarsi sugli arbitri di quest’altra generalizzazione, si può notare che una caratteristica fra la cosiddetta “nuova devianza giovanile”, espressa di frequente con azioni dimostrative o simboliche, e la cultura giovanile in generale è la trasversalità rispetto alle classi sociali e alla provenienza etnica. Infatti, come alcune ricerche recenti dimostrano, le condotte prevalenti, persino quelle riguardanti le pratiche di consumo, l’uso dei linguaggi settoriali e la gestione dei corpi, non conoscono più nell’attuale “società liquida” forti differenziazioni sociologiche, bensì tendono a coinvolgere i giovani indipendentemente dal ceto, dall’origine e dalla formazione. Rispetto ai decenni precedenti, si può rilevare in loro un forte spaesamento e un bisogno di riconoscimento e di autonomia perseguito attraverso identità situazionali e appartenenze plurime, talvolta persino contraddittorie. Il movimento apparso di recente in Italia delle “sardine” è ancora tutto da analizzare e valutare sul lungo periodo. Ma chi si aspettava di vedere migliaia di giovani scendere in piazza per opporsi alla politica del rancore e al declino dei valori progressisti?
Resta il fatto che i giovani di origine straniera percepiscono, a seconda delle situazioni, prese di distanza, svalorizzazione, disapprovazione e disconoscimento espliciti, atti di ostilità e, appunto, di multipla discriminazione . In molti di loro emerge con forza la consapevolezza non tanto di sentirsi quanto di essere costruiti come soggetti esterni al sistema, condizione che porta in sé il rischio di scivolare al margine dei diritti di cittadinanza. La sovrapposizione dello stato di giovani con la particolare condizione di estraneità propria dell’esperienza migratoria produce effetti importanti sui loro percorsi di vita già per il fatto che non godono della protezione di una solida rete familiare. La discriminazione dei giovani stranieri nella selezione degli apprendisti è, per esempio, un dato documentato. Molti di loro vengono esclusi dalla formazione professionale. Il loro accesso agli impieghi pubblici è quasi sempre precluso. Se incorrono in procedure civili e penali vengono non solo esposti più degli altri coetanei svizzeri al pubblico ludibrio ma anche recriminati e umiliati proprio a causa della loro origine straniera. Basta assistere a qualche processo per accertarsi dell’accanimento verbale di alcuni magistrati. La percezione della doppia stigmatizzazione trasforma spesso il desiderio d’integrazione dei giovani stranieri in un sentimento opposto. Nell’impossibilità di acquisire pienamente la cittadinanza, essi cercano di superare la condizione che Sayad chiama di “doppia assenza” (esclusi qui e là) unendosi tra di loro, inventandosi spazi propri separati in cui diventare protagonisti, aggrappandosi alla protezione di un’identità presunta forte e immaginata. Se poi capita che negli spazi pubblici, nella movida, la loro invisibilità e la doppia assenza si trasformano in protagonismo, ecco che gli occhi dei media si accendo.
L’occhio dei media svizzeri diffonde uno sguardo che amplifica l’ostilità preconcetta e induce, soprattutto attraverso gli articoli di cronaca, a trattamenti sempre più orientati alla diffidenza e, di conseguenza, alla presa di distanza. Persino il segretario di un’importante associazione padronale ha recentemente dichiarato che il trattamento riservato in Svizzera ai giovani stranieri costituisce una “bomba a orologeria sociale” che in futuro potrebbe costare molto cara. Senza uguali opportunità sociali si apre solo spazio ai ghetti, alle periferie culturali, alle ingiustizie e ai conflitti violenti. Così si finirà per raccogliere quello che si semina.
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