di Simone Pieranni, corrispondente da Pechino
Sono due gli ambiti “interni” che la Cina deve fronteggiare anche nel 2020. Il primo è quello relativo all’ex colonia britannica di Hong Kong, il secondo si riferisce alla regione nord occidentale dello Xinjiang.
Hong Kong
Alla fine la chief executive di Hong Kong Carrie Lam ha ufficialmente ritirato la proposta di riforma della legge sull’estradizione, che avrebbe consentito di estradare in Cina e Macao criminali condannati a Hong Kong, motivo principale delle proteste che vanno in scena nell’ex colonia britannica fin dallo scorso giugno. Ma questo non ha cambiato quasi nulla: le proteste continuano e sono continuate anche all’inizio del 2020. Attualmente la situazione sembra completamente bloccata, anche perché oltre alla richiesta di ritiro della legge si sono via via aggiunte altre istanze da parte dei manifestanti. Le loro richieste sono infatti cinque. Dopo l’affossamento della legge ne rimangono quattro: un’indagine indipendente sulle violenze commesse dalla polizia, la liberazione di tutti gli arrestati, la derubricazione da parte del governo delle proteste classificate come “rivolte”, il suffragio universale. Le mobilitazioni ormai in corso dal giugno 2018 hanno radici sia antiche sia recenti e si intrecciano con la storia dell’ex colonia e con la composizione della protesta.
Le proteste, come dicevamo, hanno radici antiche. Partiamo dunque dall’inizio, cos’è Hong Kong? Persa dalla Cina durante le guerre dell’oppio, divenne una colonia britannica nel 1842. Così rimase fino al 1997, anno dell’ handover da parte della Gran Bretagna. Prima di lasciare ai cinesi l’ex colonia, Londra decise di distribuire qualche sembianza democratica alle istituzioni dell’isola, precedentemente assente. L’attuale organizzazione governativa di Hong Kong si rifà ancora a quel periodo. Non hanno dunque torto i cinesi quando affermano che prima del “ritorno” alla Cina continentale Hong Kong avesse ancora meno diritti di quanto ne abbia oggi. Hanno però ragione anche i manifestanti quando chiedono il suffragio universale: la stessa Cina ha infatti approvato la Basic Law, la “costituzione” di Hong Kong, nella quale si esplicita la volontà di passare a una forma democratica piena, attraverso il suffragio universale. Oggi infatti gli organi legislativi sono eletti dalla popolazione solo in parte, mentre l’organo esecutivo di cui è a capo la chief executive Carrie Lam è nominato da un gruppo ristretto di persone (facilmente controllabili da Pechino).
Perché le proteste non si fermano? Perché dopo le prime manifestazioni contro la legge sull’estradizione, la mobilitazione è diventata ben presto anti-cinese, in generale. La legge è stata infatti interpretata come l’ennesimo tentativo di ingerenza da parte di Pechino all’interno dell’autonomia, anche giudiziaria, garantita dalla Basic Law all’ex colonia britannica. In più i tanti giovani che hanno via via occupato le strade e le piazze della città sono cresciuti in un mondo ben diverso da quello dei loro omologhi cinesi, ragione ulteriore di incomprensione delle proteste da parte di Pechino. In generale, già dal 2014 con la cosiddetta rivoluzione degli ombrelli, a Hong Kong è piuttosto forte la tendenza cosiddetta “localista” (non a caso nelle elezioni del 2016 alcuni giovani rappresentanti delle proteste del 2014 sono stati eletti nel “parlamento” locale). Le proteste dunque hanno sicuramente un’anima indipendentista piuttosto marcata, mentre pare mancare, ad ora, se non in frange minoritarie, una rivendicazione di natura sociale molto chiara. I problemi che affliggono Hong Kong, cui va ad aggiungersi il forte rallentamento economico degli ultimi mesi, sono noti a tutti: c’è un gigantesco problema abitativo, c’è una disparità di ricchezza enorme e ci sono migliaia di lavoratori migranti sfruttati e senza diritti.
Chi sono i manifestanti? Le proteste si sono distinte fin da subito per il loro carattere orizzontale e per la loro grande capacità organizzativa. Sfruttando Telegram e altre applicazioni, scegliendo di spostarsi pagando in cash per non essere tracciati e utilizzando tutta un’altra serie di sotterfugi di natura tecnologica (compresa la distruzione delle videocamere in giro per la città) i manifestanti – per lo più giovani e studenti – hanno fatto capire fin da subito di essere molto organizzati e di sapere come comportarsi in piazza, anche negli scontri con la polizia. Analogamente hanno saputo sfruttare un’ottima capacità di comunicazione, utilizzando la caratteristica di essere senza leader riconosciuti (usando fin da subito le maschere per occultare la propria identità). La metafora utilizzata, quella dell’acqua, ha avuto un impatto mediatico non da poco, coadiuvato da un sistema di comunicazione con la stampa piuttosto efficace.
Xinjiang
L’altro fronte aperto per la Cina è quello dello Xinjiang. A ottobre il New York Times ha ricevuto e pubblicato un riassunto e una parte di circa 400 pagine di documenti nei quali emergerebbe un piano di detenzioni di massa da parte del governo cinese della minoranza uigura e più in generale nei confronti della popolazione musulmana dello Xinjiang e non solo.
I “Xinjiang Papers” sembrerebbero quindi confermare le testimonianze e alcuni report di ONG, che denunciano da tempo la repressione del governo contro gli uiguri e l’esistenza di campi-carcere che conterrebbero un milione di persone: si tratta di studi, inchieste e report di organizzazioni umanitarie che hanno raccolto testimonianze. Materiale e report che le Nazioni Unite hanno definito “credibile”. Il tema dunque è particolarmente scottante, e di recente il governo americano ha spinto per una condanna internazionale dell’operato cinese nella regione, nel gioco scontato di impensierire un rivale con il quale è in corso uno scontro commerciale e tecnologico. La Cina ha risposto al quotidiano americano, sostenendo che si tratta di fake news prodotte da forze anti-cinesi.
Il Xinjiang è una regione autonoma nel nord occidentale cinese e la più grande divisione amministrativa del paese. E’ abitato in maggioranza dalla popolazione turcofona e musulmana degli uiguri. La regione – un tempo cuore della via della seta e territorio che, prima della sua islamizzazione, era stato solcato da popolazioni nomadiche di religioni differenti – è strategica per Pechino in quanto confinante con otto stati (Mongolia, Russia, Kazhakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir amministrata dall’India) e per le sue risorse. La zona è da tempo sottoposta a iniziative da parte dello stato centrale: anni fa fu lanciata la campagna Go West, volta a incentivare gli imprenditori ad avviare attività nella regione, con la speranza che l’aumento del tenore di vita spegnesse istanze autonomiste; secondo gli uiguri, in realtà questo sviluppo è stato solo a vantaggio della popolazione han, l’etnia maggioritaria del paese, che via via è diventata una parte sempre più consistente della regione. Poi, a seguito di attentati, sono cominciate le direttive di natura più securitaria: si tratta di documenti pubblici, emessi dal governo centrale. Fino ad arrivare alle accuse nei confronti del Pcc di aver trasformato la regione in una immensa prigione, a seguito di arresti di massa in campi-carcere.
La Cina – che di recente ha pubblicato un libro bianco sulla regione – si è sempre difesa sostenendo che si tratta di “campi di rieducazione”, dovuti alla minaccia terroristica. Luoghi di grande serenità che mirano a una riqualificazione delle persone arrestate. Pechino inoltre, non ha mai negato l’esistenza dei campi, né le politiche di controllo effettuati nella regione (come testimoniano i documenti sulle tante stazioni di polizia presenti in alcuni città) ma ha sempre negato un piano sistematico indirizzato a detenzioni di massa. Già il leak è importante: i Xinjiang Papers sono stati consegnati al quotidiano americano da un funzionario cinese che naturalmente ha chiesto l’anonimato. Si tratta di una mole documentale incredibile, formata per lo più da discorsi di Xi Jinping, di altri funzionari e direttive interne del Pcc. Affidandoci alla professionalità dei reporter del Nyt e dando per scontate le immani verifiche sulla autenticità dei documenti, e prima di passare ad analizzare cosa c’è dentro, la sola dinamica e l’oggetto della documentazione ci fornisce già una chiave interpretativa.
I documenti potrebbero indicare che non tutto il Partito è compatto con la leadership. La fuoriuscita di documenti direttamente dal Pcc è sempre foriera di eventi, non sempre immediatamente leggibili: è quanto accadde – ad esempio – con le rivelazioni sulle ricchezze della famiglia dell’allora premier Wen Jiabao uscito anch’esso sul Nyt. Lo scoop uscì nell’ottobre del 2012, guarda caso in prossimità del diciottesimo congresso che pose Xi Jinping al vertice del partito e che – oggi lo possiamo dire, allora non si sapeva – pose il Partito in una direzione precisa: più intervento statale e meno privato, il contrario delle idee di Wen Jiabao e dei suoi protetti che avrebbe potuto piazzare in posizioni apicali; il report lo bruciò completamente. Da tempo ci si chiede se esista un’opposizione interna al dominio di Xi Jinping: forse i Xinjiang Papers potrebbero essere l’evento capace di insinuare che qualcuno all’interno del Pcc non è in linea con Xi. Le reazioni e il “movimento” eventuale di alcuni nomi, ad esempio dei funzionari responsabili in questo momento in Xinjiang, ci daranno le prime risposte.
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