America latina, tra colpi di stato e rivolte popolari

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

Quello appena iniziato sarà un anno cruciale per le forze progressiste latinoamericane.

Nella regione continuerà la bassa crescita economica – per la Commissione economica per l’America latina e il Caribe (Cepal) il Pil quest’anno crescerà di poco più dell’1% – e con essa l’aumento della povertà e della diseguaglianza sociale.

 

La situazione cioè che l’anno scorso ha causato quelle rivolte sociali che hanno scosso il subcontinente da Haiti e Honduras a Colombia, Ecuador e Cile. Paese quest’ultimo indicato come modello dai fautori delle politiche neoliberiste adottate negli ultimi anni dalle destre al governo nei principali paesi dell’America latina.

 

“La regione corre il rischio di soffrire gravi crisi sociali e instabilità politica a causa della diseguaglianza sociale che l’attanaglia” si legge in un documento del Programma dell’Onu per lo sviluppo (Pnud). “La percezione di una profonda ingiustizia nella distribuzione della ricchezza è aumentata... e questa situazione ha provocato la protesta di ampi settori che reclamano un miglior accesso ai servizi basici come pure all’istruzione e ai servizi sanitari”, continua il documento. In sostanza, un rifiuto delle politiche neoliberiste esteso a settori sempre più ampi della popolazione latinoamericana che non hanno fiducia nelle strutture politiche, considerate corrotte e intoccabili.

 

Se a questo si aggiunge l’ondata di lotte dei movimenti femministi nei più importanti paesi – Argentina e Brasile – si ha un quadro di un subcontinente che chiede profondi cambiamenti.

 

A queste sfide dovranno rispondere le forze progressiste se vogliono invertire il “pendolo della storia” che negli ultimi cinque anni ha visto prevalere in America latina governi di destra subordinati agli Stati Uniti.

 

Una politica di integrazione regionale progressista potrebbe avvenire attorno all’asse Messico-Argentina, secondo l’analista basco Katu Arkonata. La vittoria del peronista Alberto Fernández in Argentina, la terza economia latinoamericana, non ha solo significato – e non è poco – la sconfitta di Maurizio Macri, ovvero di uno dei personaggi chiave della riscossa delle destre neoliberiste iniziata cinque anni fa. La buona sintonia subito dimostrata con il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador potrebbe “dare un nuovo impulso all’integrazione regionale di un’America latina sconvolta da colpi di stato e rivolte popolari” e rappresentare una leadership capace di tener testa alla politica imperiale Usa e ai suoi maggiori alleati, il brasiliano Jair Bolsonaro e il presidente colombiano Iván Duque. Dall’8 gennaio il Messico ha la presidenza di turno della Comunità di Stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac), organizzazione che è intenzionata a rilanciare per contrastare i governi di destra riuniti nel Gruppo di Lima.

 

Non sarà comunque un compito semplice. Non solo perché ciascuno dei due presidenti deve affrontare una situazione interna tutt’altro che facile: un’economia in difficoltà, l’accordo di libero scambio recentemente siglato con Stati Uniti e Canada oltre all’endemica violenza del narcotraffico, per quello messicano; una disastrosa crisi economica e la necessità di rinegoziare il gigantesco debito di 50 miliardi di dollari contratto con l’Fmi, per quello argentino.

 

Il compito più difficile sarà opporsi alla politica di “riconquista” del subcontinente voluta dall’Amministrazione Trump che ha riaffermato, senza nessun ritegno, la Dottrina Monroe che prevede appunto la subordinazione dell’America latina agli interessi della potenza imperiale. Per attuarla, i falchi di Trump hanno lanciato contro i paesi progressisti – Cuba, Venezuela e Bolivia soprattutto – una vera e propria guerra ibrida, condotta con sanzioni, blocchi economici, finanziari e commerciali, aggressioni mediatiche e politiche e colpi di Stato; l’ultimo, lo scorso novembre in Bolivia contro il presidente Evo Morales.

 

Non c’è solo furore ideologico in questa guerra: il controllo politico-militare dell’America latina è anche disegno economico e di politica interna agli Usa. L’assassinio del generale iraniano Soleimani eseguito a Baghdad all’inizio dell’anno è la conferma della necessità che Trump ha di generare situazioni di conflitto e nemici esterni – tanto più alla frontiera con gli Usa – per assicurarsi la rielezione. Venezuela, Cuba e Bolvia si confermano paesi chiave per resistere a questa politica neocoloniale e destabilizzante. In gennaio dell’anno scorso, con l’autoproclamazione di Juan Guaidó alla presidenza ad interim del Venezuela e il conseguente tentativo di golpe diretto dagli Usa, il presidente Maduro sembrava avere i giorni contati. Il blocco economico e finanziario imposto da Washington quando il leader chavista ha sconfitto i piani golpisti e rinnovato l’alleanza con le Forze armate ha causato la perdita di più di 30 miliardi di dollari e l’acuirsi di una drammatica crisi economica. Ma il governo bolivariano ha superato – con l’aiuto di Russia, Cina e Cuba – anche questa crisi.

 

Alla fine dell’anno, mentre il suo avversario Guaidó era messo all’angolo, anche tra le fila dell’opposizione, il presidente Maduro si presentava come un leader stabile, tanto da programmare elezioni legislative in primavera. Vi era dunque da aspettarsi una nuova iniziativa imperiale per destabilizzare il governo bolivariano. Che puntualmente è arrivata con l’elezione del presidente dell’Assemblea nazionale e il tentativo di “risurrezione” di Guaidó come elemento chiave di tale destabilizzazione.

 

Nell’anno passato Cuba ha concluso il processo istituzionale per dare sostanza politica al rinnovamento generazionale : è stata approvata con un referendum la nuova Costituzione che prevede la separazione dei poteri tra il presidente della repubblica – Miguel Díaz-Canel – e l’esecutivo, guidato dal recentemente nominato premier, Manuel Marrero. A metà gennaio l’elezione dei governatori delle provincie concluderà il processo e toccherà alla nuova struttura politica avanzare nel processo di riforme del socialismo cubano iniziate da Raúl Castro nel 2011. Il tutto sotto i rinnovati attacchi dell’Amministrazione Trump – l’ultimo, le sanzioni contro il ministro delle Forze armate rivoluzionarie Cíntra-Frias – più che mai decisa a strangolare l’economia dell’isola.

 

Con Evo Morales rifugiato in Argentina, la chiave del futuro prossimo della Bolivia passa per la designazione, il 19 gennaio, del candidato del Movimento al socialismo (Mas) per le elezioni previste a maggio. Ma anche se il Mas sarà il partito più votato al primo turno, secondo Arkonata bisogna “essere coscienti che chi ha dato vita al golpe di novembre non cederà il potere in una contesa elettorale e cercherà di mantenerlo con ogni mezzo”.

Tratto da: