Elezioni britanniche: incubo di una notte di fine autunno

di Damiano Bardelli

 

Londra, la sera del 12 dicembre. Il buio è da tempo calato sulla città. Le elezioni generali – le terze in quattro anni – volgono al termine. 

Come in tutto il Regno Unito, i seggi elettorali si apprestano a chiudere i battenti dopo una lunga giornata fredda e uggiosa.

 

Il silenzio delle strade nebbiose e insolitamente deserte del cuore della City è rotto da dieci lugubri rintocchi del Big Ben. Sono arrivate le 22, il tempo per votare è ufficialmente concluso. Per i risultati definitivi bisognerà attendere la mattina seguente, ma tutto è già pronto per il primo exit poll, solitamente attendibile. In un contesto di forte incertezza, segnato dall’interminabile impasse sulla Brexit, il paese attende con il fiato sospeso il nome del partito che guiderà il governo per i cinque anni a venire.

 

L’eco delle campane riverbera ancora quando, improvvisamente, la facciata della sede centrale della BBC si illumina con i dati delle prime proiezioni. Sorpresa: il volto ebete del leader Conservatore Boris Johnson domina la scena, con la sua spettinata chioma bionda. In barba ai pronostici che prevedevano un hung parliament (parlamento senza maggioranza assoluta), i nuovi Tories in salsa nazional-populista sono lanciati verso una schiacciante maggioranza alla Camera dei comuni – la più importante dai tempi di Margaret Thatcher.

 

Per il Partito Laburista di Jeremy Corbyn comincia una notte da incubo. In una lenta agonia, la disfatta annunciata dalle proiezioni si concretizza mano a mano che arrivano i risultati dai diversi collegi elettorali. Le campagne inglesi rimangono saldamente in mano ai Conservatori. Le regioni operaie del cosiddetto “red wall” (Inghilterra centrale e del nord), storicamente laburiste, si tingono per la prima volta di blu, sedotte dalla promessa dei Tories di realizzare quella Brexit per la quale avevano massicciamente votato nel 2016. La Scozia, un tempo bastione laburista, è ormai sotto il controllo quasi integrale dei socialdemocratici indipendentisti del Partito Nazionale Scozzese (SNP). Il verdetto finale per i Laburisti è impietoso: con soli 202 seggi su 650 alla Camera dei comuni, il partito ottiene il suo peggior risultato da quasi un secolo.

 

Certo, non tutto è perduto. Il Partito Laburista si conferma prima forza a Londra, nei principali centri urbani dell’Inghilterra e del Galles e nelle città universitarie, registrando ottimi risultati. A livello di voto popolare, il partito ha ottenuto un terzo dei suffragi (32%), meglio di quanto avesse fatto sotto la guida del moderato Ed Miliband nel 2015 (30%) e sotto quella del premier uscente Gordon Brown nel 2010 (29%). Ma il sistema maggioritario in vigore nel Regno Unito, il cosiddetto “first past the post”, condanna i laburisti a perdere ben 60 seggi e spiana la strada alla maggioranza assoluta dei Conserva tori, con i loro 365 seggi (43,6% dei suffragi). A livello istituzionale, i Laburisti escono con le ossa rotte, fortemente indeboliti rispetto alla spettacolare ripresa del 2017, quando portarono a casa 262 seggi.

 

Come spiegare questo insuccesso e più in generale i risultati globali delle elezioni? I politici più opportunisti e i giornalisti più pigri si sono affrettati ad additare il nuovo corso politico imboccato dal Partito Laburista sotto la guida di Jeremy Corbyn, con la sua rilettura contemporanea del socialismo e del marxismo. Secondo Tony Blair, Matteo Renzi e compagnia bella, questa sconfitta dimostrerebbe l’inefficacia dei progetti politici radicali, e per tornare a vincere la sinistra dovrebbe abbracciare posizioni più centriste, rinunciando al socialismo a favore di un più ragionevole liberalismo di sinistra. Peccato però che queste affermazioni semplicistiche e faziose siano in contraddizione sia con le tendenze politiche in atto nel Regno Unito che con i risultati delle elezioni dello scorso dicembre. Nel 2017, con lo stesso esatto progetto politico, Jeremy Corbyn guidava il Labour al suo miglior risultato degli ultimi quindici anni, dopo un periodo di inesorabile declino, con il 40% dei suffragi (+9,6% rispetto alle elezioni del 2015, le ultime del corso neoliberale aperto negli anni ’90 da Tony Blair). Stando ai sondaggi effettuati negli ultimi mesi, le proposte di stampo socialista contenute nell’ultimo programma laburista – rinazionalizzazione dei servizi ferroviari, controllo pubblico dell’acqua, dell’elettricità e del gas, maggiore imposizione fiscale per gli alti redditi, aumento del salario minimo, rafforzamento dei diritti dei lavoratori, sostegno al sistema di sanità pubblica (NHS) indebolito da decenni di tagli,… – ottengono ampi consensi nella popolazione. E, soprattutto, il Partito Liberale Democratico – quello oggi più vicino alla Terza Via tanto cara a Blair – ha fatto un vero e proprio buco nell’acqua. La crescita dei Lib Dem prevista da diversi giornalisti e accademici non si è avverata: il partito ha nuovamente perso consensi, scendendo all’11% (ben lontano dal 20-25% attorno al quale navigava fino al 2010), e la leader Jo Swinson ha addirittura mancato la rielezione in parlamento.

 

Ad aver beneficiato del crollo laburista non sono quindi stati i partiti centristi vicini alle idee di Blair e Renzi, ma la destra populista. Quest’ultima – incarnata principalmente dai Conservatori a guida Boris Johnson – ha infatti saputo convincere le frange più sfavorite di essere la sola sostenitrice della volontà popolare in opposizione ad una classe politica sempre più lontana dai bisogni della “gente”.

 

Ad un’analisi più approfondita, le cause della sconfitta laburista appaiono molteplici e complesse. Alcune hanno radici profonde. La perdita delle regioni operaie del “red wall”, in particolare, è la conseguenza di una tendenza iniziata negli anni ’90, quando la dirigenza laburista decise di sostituire la sua base elettorale tradizionale, operaia e popolare, per rivolgersi principalmente al ceto medio-superiore istruito dei grandi centri urbani, cosmopolita e benestante. In questo senso, il risultato di dicembre rimette il Partito Laburista sulla traiettoria d’inesorabile declino iniziata due decenni fa, e il successo ottenuto da Corbyn nel 2017 appare oggi come un’aberrazione statistica.

 

Altre cause, invece, concernono la gestione della campagna. Il programma dei Laburisti, per quanto ricco e ambizioso, era troppo denso e variegato per fare breccia nell’immaginario collettivo. Il tentativo – condivisibile – di spostare l’attenzione dalla Brexit alle questioni di società e di politica interna non ha funzionato, a fronte della campagna dei Tories incentrata esclusivamente sullo slogan semplicistico “Get Brexit done” (“Portiamo a termine la Brexit”). La gestione delle forze militanti sul terreno – principale risorsa del Labour, primo partito in Europa per numero di aderenti – è stata poi altrettanto problematica, visto che ci si è concentrati principalmente sui marginal seats conservatori (seggi detenuti con maggioranze risicate) a discapito dei seggi laburisti a rischio, passati poi ai Tories. Ma al di là di queste considerazioni, i due fattori principali della sconfitta laburista sono di gran lunga la Brexit e l’impopolarità di Corbyn. Se l’elettorato conservatore era in buona parte compatto a favore dell’uscita del Regno Unito dall’UE, la base laburista era profondamente spaccata, divisa tra Remainers dei principali centri urbani e Leavers delle regioni operaie. Nel 2017, la dirigenza laburista era stata in grado di tenere insieme questa fragile coalizione giocando sull’ambiguità. A queste elezioni, nell’impossibilità di tergiversare e con il timore di perdere l’elettorato pro-UE a beneficio dei Lib Dem, il Labour si è presentato con la promessa di un secondo referendum sulla Brexit. Promessa per certi versi necessaria, ma che si è poi rivelata fatale e che ha contribuito in modo decisivo al crollo del “red wall”. Insomma, in un’elezione come questa, interamente incentrata sulla Brexit, il Partito Laburista non aveva alcuna chance di ripetere il risultato del 2017, né tanto meno di vincere.

 

Le campagne diffamatorie contro Jeremy Corbyn, condotte sia dai tabloid conservatori che dalle grandi testate liberal , hanno fatto il resto. Chi si sognerebbe mai di votare per un candidato del quale si è sempre sentito parlare solo in termini negativi? Certo, Corbyn è poco carismatico e telegenico, ma il livello di menzogne e di odio al quale è stato soggetto sin dalla sua nomina a leader del Partito Laburista ha del grottesco. Nell’impossibilità di combattere le idee popolari sostenute da Corbyn, i suoi avversari (inclusi quelli all’interno del partito) hanno fatto il possibile per spostare l’attenzione dai temi politici alla sua reputazione – non per niente, è molto più facile distruggere la reputazione di qualcuno che le sue opinioni. Militante pacifista e antirazzista di lunga data, è stato oggetto di accuse sempre più assurde: vecchio incompetente, minaccia per la sicurezza nazionale, nemico della famiglia reale, terrorista, spia straniera, burattino della Russia, antisemita, e chi più ne ha più ne metta. Dopo una campagna come questa, denunciata anche da grandi figure della cultura come il regista Ken Loach, la dignità del giornalismo e delle istituzioni liberali esce fortemente incrinata.

 

Ora che i giochi sono fatti, che futuro aspetta il Regno Unito? L’uscita dall’UE è finalmente una certezza, ma la forma concreta che prenderà la Brexit e la tempistica della sua realizzazione rimangono avvolte dal mistero. In corrispondenza della Brexit, si delinea all’orizzonte un accordo di libero scambio con gli USA destinato a deregolamentare ulteriormente il mercato britannico, con tutte le ricadute del caso sulla qualità dei servizi, sui diritti dei consumatori e sulla partecipazione dello Stato nell’economia.

 

Sul fronte interno, la dissoluzione dello stato sociale e l’assalto ai diritti dei lavoratori continueranno con ancora maggiore intensità. Un giro di vite sull’immigrazione appare altrettanto probabile, ma attenzione a non confondere Johnson per una versione di Salvini in salsa Worcester. Il nuovo Primo ministro è chiaramente un populista, ma è anche un camaleonte politico, arrivista e assetato di potere, che farà tutto il possibile per restare a lungo alla guida del Regno Unito. Non è escluso quindi che una volta placata la tormenta della Brexit, Johnson si ricollochi su posizioni più moderate e consensuali, come all’epoca della sua sindacatura a Londra. L’unità del regno appare poi in bilico. In Scozia, il consolidamento del SNP e l’opposizione alla Brexit hanno rilanciato gli appelli per un nuovo referendum sull’indipendenza, mentre in Irlanda del Nord i partiti nazionalisti favorevoli alla riunificazione dell’Irlanda hanno ottenuto la maggioranza per la prima volta nella storia. Se l’indipendenza scozzese e la riunificazione irlandese non sono per domani, quel che è certo è che Johnson si troverà confrontato con due importanti focolai d’instabilità.

 

Resta solo da vedere se il Partito Laburista continuerà con il cammino iniziato nel 2015 con l’elezione di Corbyn o se tornerà sulle posizioni neoliberali del New Labour. L’attuale dirigenza ha già annunciato le sue dimissioni e i nomi dei possibili papabili per la leadership non mancano. Stando agli ultimi sondaggi, il centrista Keir Starmer è dato in ampio vantaggio sulla candidata dell’ala sinistra Rebecca Long Bailey, che ambisce a diventare la prima donna a guidare il partito, ma la strada è ancora lunghissima e tutto può succedere. Malgrado la Brexit, il futuro della sinistra europea passa anche da qui.

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