La madre di tutte le pandemie

di Ignacio Ramonet - ilmanifesto

 

Nato da appena cento giorni in una lontana città sconosciuta, un nuovo virus ha già percorso tutto il pianeta, e ha obbligato a chiudersi in casa miliardi di persone. Qualcosa immaginabile solo nei film post-apocalittici… 

L’umanità sta vivendo una esperienza del tutto nuova. 

Verificando che la teoria della “fine della storia” è una menzogna, scoprendo che la storia, in realtà, è imprevedibile.

 

Ci troviamo di fronte a una situazione enigmatica. Senza precedenti. Nessuno sa interpretare e chiarire questo strano momento di profonda opacità, quando le nostre società continuano a vacillare sui loro pilastri come scosse da un cataclisma cosmico. E non esistono segnali che ci aiutino a orientarci. Un mondo crolla. Quando tutto sarà terminato, la vita non sarà più la stessa.

 

Solo qualche settimana fa, decine di proteste si erano diffuse a scala planetaria, da Hong Kong a Santiago del Cile. Il nuovo coronavirus le ha spente una a una estendendosi, rapido e furioso, nel mondo. Alle scene di masse in festa che occupavano strade, si sostituiscono le immagini di viali vuoti, muti, spettrali. Emblemi silenziosi che segneranno per sempre il ricordo di questo strano momento.

 

Stiamo subendo nella nostra stessa esistenza il famoso “effetto farfalla”: qualcuno, dall’altro lato del pianeta, mangia uno strano animale, e tre mesi dopo metà dell’umanità è in quarantena. Afflitti, i cittadini voltano gli occhi verso la scienza e gli scienziati – come un tempo verso la religione – implorando la scoperta di un vaccino salvatore, la cui scoperta richiederà lunghi mesi.

 

La gente cerca anche rifugio e protezione dello Stato che, dopo la pandemia, potrebbe tornare con forza a sfavore del Mercato. La paura collettiva quanto più è traumatica tanto più rinforza il desiderio di Stato, di Autorità, di Orientamento. In cambio, le organizzazioni internazionali e multilaterali di ogni tipo (Onu, Croce Rossa Internazionale, Fmi, Banca mondiale, ecc.) non si sono mostrate all’altezza. Il pianeta scopre, stupefatto, che non c’è un comandante, a bordo. Screditata per la propria complicità con le multinazionali farmaceutiche, la stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms) non ha avuto l’autorità necessaria per assumere, come le sarebbe toccato, la conduzione della lotta globale contro la nuova piaga.

 

Intanto, i governi assistono impotenti alla disseminazione in tutti i continenti di questa nuova peste. Contro la quale non esiste vaccino, né farmaco, né cura, né trattamento che elimini il virus dall’organismo… E questo durerà. Quel che sembrava distopico e tipico delle dittature della fantascienza è divenuto “normale”: la gente viene multata perché esce di casa per sgranchirsi le gambe, o per far passeggiare il cane. E si sta proponendo che chi circola in strada senza il suo telefono sia punito con la prigione.

 

Il lungo periodo neoliberista è ampiamente criticato, in particolare a causa delle politiche devastatrici di privatizzazione a oltranza dei sistemi pubblici di sanità che sono risultate criminali e si rivelano assurde. Le grida di agonia delle migliaia di malati morti perché non disponevano di terapie intensive condannano per un lungo tempo i fanatici delle privatizzazioni, dei tagli e delle politiche di austerità. Si parla ora di nazionalizzare, di rilocalizzare, di re-industrializzare, di sovranità farmaceutica e sanitaria. Si torna a usare una parola che i neoliberisti avevano stigmatizzato: solidarietà. L’economia mondiale è paralizzata a causa della prima quarantena globale della storia. Nel mondo intero c’è crisi, allo stesso tempo, di domanda e di offerta. Circa centosettanta paesi avranno una crescita negativa nel 2020. Ovvero, una tragedia economica peggiore della Grande Depressione del 1929.

 

Milioni di imprenditori e di lavoratori si chiedono se moriranno di virus o di fallimento e disoccupazione. Nessuno sa chi si occuperà della campagna, se si perderanno i raccolti, se mancheranno gli alimentari, se si tornerà al razionamento…

 

L’apocalisse bussa alla nostra porta. La sola piccola luce di speranza è che, con il pianeta in pausa, l’ambiente ha potuto respirare. L’aria è più trasparente, la vegetazione più fiorente, la vita animale più libera. E’ diminuita la contaminazione atmosferica che ogni anno ammazza milioni di persone. Rapidamente, lavata via la sporcizia dell’inquinamento, la natura è tornata a splendere così bella… Come se l’ultimatum alla Terra che il coronavirus ci lancia fosse anche un disperato allarme finale nella nostra corsa suicida verso il cambiamento climatico: “Occhio! Prossima fermata: collasso”.

 

Nella scena geopolitica, la spettacolare irruzione di un virus sconosciuto ha sconvolto completamente la scacchiera del sistema-mondo. In tutti i fronti di guerra – Libia, Siria, Yemen, Afghanistan, Sahel, Gaza, ecc. – i combattimenti sono stati sospesi. La peste ha imposto di fatto, con maggiore autorità dello stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu, una effettiva “Pax coronavirica”.

 

Nella politica internazionale, la terrorizzata gestione di questa crisi da parte del presidente Donald Trump ha assestato un colpo molto duro alla leadership mondiale degli Stati uniti, che non hanno saputo aiutare se stessi né nessun altro. In cambio la Cina, dopo un inizio incerto nella lotta alla nuova piaga, è riuscita a recuperare, a mandare aiuti a un centinaio di paesi e sembra poter andare oltre al maggiore trauma sofferto dall’umanità in secoli. La costruzione di un nuovo ordine mondiale potrebbe essere in gioco in questi giorni…

 

In ogni modo, la dura realtà è che le potenze più forti e le tecnologie più sofisticate sono apparse incapaci di frenare l’espansione del Covid-19, malattia causata dal coronavirus Sars-CoV-2, il nuovo grande assassino planetario.

 

Ignoriamo ancora molte cose su questo agente di infezione: non sappiamo, per esempio, se avrà mutazioni… Tanto meno sappiamo perché infetta più gli uomini che le donne. Né quali sono le cause per cui due persone con caratteristiche simili – giovani, sane, senza patologie associate – sviluppano forme opposte della malattia, lieve una, grave o mortale l’altra. Né perché i bambini quasi mai soffrono di forme gravi dell’infezione. Né se i malati curati continuano a trasmettere l’infezione, né se sono realmente immunizzati… Però esiste un ampio accordo nel riconoscere che questo nuovo virus è nato nello stesso modo di altri prima di lui: saltando da un animale agli esseri umani.

 

Sappiamo anche che dal momento in cui il coronavirus penetra – attraverso gli occhi, il naso o la bocca – nel corpo della sua vittima comincia subito a replicarsi in modo esponenziale… Secondo la ricercatrice Isabel Sola, del Centro Nacional de Biotecnología de España: “Una volta dentro la prima cellula umana, ogni coronavirus genera fino a 100 mila copie di se stesso in meno di 24 ore…” (El País, 14 marzo 2020). Ma anche, altro aspetto singolare e astuto di questo patogeno, nell’invadere un corpo umano concentra il suo primo attacco, mentre è ancora invisibile, nell’apparato respiratorio superiore della persona infettata, dal naso alla gola, dove si moltiplica con frenetica intensità. Da quel momento, quella persona – che non sente nulla – si trasforma in una potente bomba batteriologica e comincia a disseminare massicciamente intorno a sé – semplicemente parlando o respirando – il virus letale… Solo una minoranza di contagiati subisce il secondo attacco del germe, concentrato questa volta nei polmoni, ciò che provoca polmoniti che possono essere letali, soprattutto in persone con più di 65 anni e con malattie croniche.

 

Dato che il numero di contagiati è massiccio e simultaneo, questa “minoranza” – che rappresenta il 15 per cento di tutti gli infettati e che è quella che andrà in ospedale – può raggiungere rapidamente cifre molto alte. Lo abbiamo visto in Cina, Italia, Spagna, Regno Unito o negli Stati uniti, e basta che varie migliaia di persone vengano ricoverate nello stesso momento nelle unità d’urgenza che far collassare tutto il sistema sanitario di qualunque paese, per sviluppato che sia… Quasi ovunque, le autorità hanno confessato che non avevano previsto una simile valanga di malati, “… Un continuo tsunami di pazienti in stato grave…” (El Periódico, 26 marzo 2020).

 

Di fronte all’ondata di critiche per quella che è stato percepita come una “cattiva gestione” della pandemia, diversi governanti hanno argomentato che la rapidità dell’attacco pandemico li ha presi di sorpresa. Donald Trump, per esempio, non ha avuto dubbi nell’affermare che “nessuno sapeva che ci sarebbe stata una pandemia o epidemia di queste proporzioni”, e che si trattava di “un problema imprevedibile”, “qualcosa che nessuno si aspettava”, “venuto dal nulla” (CNN en español, 3 aprile 2020).

 

Si possono dire molte cose per spiegare la scarsa preparazione delle autorità di fronte a questo brutale flagello, però quello della sorpresa non è ammissibile. Perché decine di previsioni e varie informative recenti avevano lanciato avvisi molto seri sulla imminenza dell’arrivo di un nuovo virus che avrebbe potuto causare qualcosa come la madre di tutte le epidemia. Sarebbe bastato che Trump e altri dirigenti mondiali ascoltassero i ripetuti avvertimenti diffusi dalla stessa Oms.

 

In particolare il grido d’allarme che essa ha lanciato nel settembre del 2019, alla vigilia del primo attacco del coronavirus a Wuhan: “Ci troviamo di fronte alla minaccia molto reale di una pandemia fulminante, sommamente letale, provocata da un patogeno respiratorio che potrebbe uccidere da 50 a 80 milioni di persone e liquidare quasi il 5 per cento dell’economia mondiale. Una pandemia globale di queste proporzioni sarebbe una catastrofe e scatenerebbe caos, instabilità e insicurezza generalizzati. Il mondo non è preparato” (Gro Harlem-Brundtland y Elhadj As Sy, «Un Mundo en peligro: informe anual sobre la preparación mundial para las emergencias sanitarias».

 

Ovvero, questa pandemia è la catastrofe più prevedibile nella storia degli Stati uniti. Molto più di Pearl Harbor, dell’assassinio di Kennedy o dell’11 settembre. Si sapeva… Lo sapevano… Il disastro poteva essere evitato.

 

Per affrontare il Covid-19, molti paesi stanno utilizzando le nuove tecnologia della cyber-vigilanza. E’ la prima malattia globale contro la quale si fa una lotta digitale. E questo provoca un dibattito sul rischio per la privacy individuale. Non c’è dubbio che il controllo dei telefoni mobili, benché per una buona causa, apre la via alla possibilità di un controllo digitale di massa. Tanto più quanto le applicazioni che individuano in ogni istante dove sei possono raccontare tutto allo Stato. E le misure “eccezionali” che i poteri pubblici stanno adottando, potrebbero restare nel futuro, soprattutto quelle relative alla cyber-vigilanza e al bio-controllo.

 

Lo Stato vuole accedere anche ai dispositivi medici dei cittadini e a altre informazioni finora protette. I governi – inclusi i più democratici – potranno trasformarsi nei Grandi Fratelli di oggi, non avendo dubbi nel violare le loro proprie leggi per controllarci meglio (Ignacio Ramonet, El Imperio de la Vigilancia, Clave intelectual, Madrid, 2016).

 

Anche Google, Facebook e Apple potrebbero approfittarne per farci rinunciare a una parte dei nostri segreti. Dopo tutto, possono dirci, durante la pandemia abbiamo accettato che altre libertà fossero ristrette.

 

Non vi è dubbio che la geolocalizzazione e il controllo dei telefoni mobili, sommati all’uso dei algoritmi di previsione hanno aiutato nel controllo dei contagi. Ma è anche certo che questo spreco di tecnologie non è risultato sufficiente per combattere l’espansione del Covid-19. Nemmeno in Corea del Sud, in Cina, A Taiwan, Hong Kong o Singapore. Il relativo successo di questi paesi contro la pandemia si spiega soprattutto con l’esperienza acquisita nella loro lunga lotta, tra il 2003 e il 2018, contro la Sars e la Mers-Cov, le due precedenti epidemie anch’esse causate da coronavirus.

 

Nessuna di queste piaghe è arrivata in Europa o negli Usa. La qual cosa spiega anche, in parte, perché i governi europei e statunitense abbiano reagito tardi e male. Contro questi due nuovi coronavirus, in situazione di urgenza, e senza che nessuna potenza occidentale accorresse in aiuto, le nazioni asiatiche non hanno perso tempo nella sperimentazione di tecnologie digitali. Hanno messo mano a disposizioni di salute pubblica del passato che gli epidemiologi conoscevano bene: la quarantena, l’isolamento sociale, le zone ristrette, la chiusura delle frontiere, i blocchi stradali, la distanza di sicurezza e la ricerca sui contatti di ciascun contagiato… Le autorità si sono basate su una convinzione molto semplice: se per magia tutti gli abitanti restassero immobili dove sono per quattordici giorni, a un metro e mezzo di distanza tra loro, tutta la pandemia di fermerebbe all’istante.

 

La spettacolare supremazia tecnologica della quale tanto ci vantavamo è servita a poco, al momento di contenere il primo impatto della marea pandemica.

 

Per applicare tre obiettivi urgentissimi – disinfettarci le mani, confezionare mascherine e frenare l’avanzata del virus – l’umanità ha dovuto ricorrere a prodotti e tecniche vecchi di secoli. Rispettivamente: il sapone, scoperto dai romani prima della nostra era; la macchina per cucire, inventata da Thomas Saint circa nel 1790; e, soprattutto, la scienza del confinamento e dell’isolamento sociale, affinata in Europa contro le decine di ondate di peste successive al quinto secolo…

 

Adesso si intravede la prospettiva di un disastro economico senza paragoni. Non si era mai vista l’economia di tutto il pianeta frenare di colpo. I territori più colpiti sono Cina e Asia orientale, Europa e Stati Uniti, ovvero il triangolo centrale dello sviluppo mondiale. Milioni di imprese, grandi e piccole, si trovano in crisi, chiuse, sull’orlo del fallimento. Diverse centinaia di milioni di lavoratori hanno perso il loro lavoro, totalmente o parzialmente… Come in molte occasioni precedenti, i salariati peggio remunerati e le piccole imprese pagheranno il prezzo più alto.

 

Cinquecento milioni di persone potrebbero essere trascinate di nuovo nella povertà. Questa recessione supererà in profondità e durata quella del 1929. La pandemia produce un rifiuto generale dell’ipercapitalismo anarchico, che ha permesso oscene disuguaglianze, cioè che l’1 per cento dei ricchi possedesse più del 99 per cento rimanente.

 

Le borse, con bassi e alti, sono affondate: “E’ un autentico bagno di sangue!”, ha gridato il broker di una impresa di gestione dei patrimoni (The Wall Street Journal, 27 febbraio 2020). I prezzi del petrolio sono caduti in abissi mai visti. Eccellente notizia per i paesi importatori: Cina, Giappone, Germania, Spagna, Corea del Sud… Ma nefasta per gli Stati esportatori più popolati: Russia, Nigeria, Messico, Venezuela… Per di più, un petrolio così a basso prezzo può ritardare le necessaria transizione ecologica perché aumenta il prezzo delle energie alternative.

 

L’economia mondiale si addentra in un territorio ignoto. Nessuno ha un’idea precisa delle dimensioni del cataclisma.

 

Si stima che il Pil dei paesi sviluppati potrebbe cadere del 10 per cento… Uno choc brutale. Febbrili, i governi dei paesi ricchi praticano una sorta di “keynesismo di guerra”. Devono aiutare i salariati, i contadini, le famiglie e le imprese, con lo scopo di evitare l’implosione del sistema. E anche per impedire che il coronavirus causi più poveri che morti. E che questo provochi una grande esplosione popolare.

 

Il deficit sarà galattico. Nel caso del Regno Unito, la Banca d’Inghilterra risolverà il problema fabbricando moneta… Quel che non possono fare né l’Italia né la Spagna, gli stati che avranno più bisogno di liquidità. E sono già super-indebitati… In queste due nazioni, l’uscita dalla zona euro si porrà con forza. Perché la Germania ha negato la possibilità di ottenere crediti senza alcuna condizione (i celebri “coronabond”).

 

Quando, in parte, i problemi dei sistemi sanitari in Italia e Spagna sono la conseguenza diretta delle politiche di austerità imposte da Berlino. Bisogna ricordare che il sud d’Europa, prima di essere l’epicentro della attuale pandemia, è stato l’epicentro delle politiche più sadiche (Ignacio Ramonet, «Sadismo económico», Le Monde diplomatique en español, luglio 2012) di austerità dopo la crisi finanziaria del 2008.

 

Una cosa ha portato all’altra. L’Europa, come unione di protezione reciproca, è stata incapace di rispondere in maniera solidale al dramma umano e sociale che si abbatte sul Vecchio Continente. La gente – in particolare i familiari e gli amici dei defunti – non lo dimenticherà.

 

Il commercio internazionale si è ridotto al livello di un secolo fa. I prezzi delle materie prime è precipitato. Non solo quello del petrolio, ma anche il rame, il nichel, il cacao, l’olio di palma, ecc. Per le economie dei paesi esportatori del sud – dove vivono i due terzi degli abitanti del pianeta – è una situazione di devastazione.

 

Perché, al crollo delle esportazioni, si sommano la fine degli introiti del turismo e la drastica diminuzione delle rimesse degli emigranti. Ovvero, le tre principali risorse dei paesi del sud cadono. Milioni di persone che negli ultimi decenni erano riuscite a creare una classe media planetaria in formazione corrono ora il pericolo di ricadere nella povertà.

 

In un contesto così oscuro, la cosa più prevedibile è che, quando la pandemia passerà, vari Stati, resi più fragili, conoscano forti terremoti sociali, e lì potrebbero esserci bagni di sangue. E d’altra parte, è probabile che assisteremo a una disperata fuga di emigrazione selvaggia verso il Nord, i cui paesi staranno lottando con le conseguenze della peggiore crisi della loro storia. Inutile dire che i nuovi emigranti non saranno ben accolti… La storia avverte che i disastri alimentano gli sciovinismi e i razzismi.

 

Per evitare simili scenari da incubo, si stanno levando voci che reclamano l’adozione di vari provvedimenti d’urgenza. Tra essi, la cancellazione del debito dei paesi del sud.

 

Da quarant’anni, la globalizzazione neoliberista stimola gli intercambi e sviluppa catene di rifornimento transnazionali. La crisi sanitaria ha dimostrato che le linee logistiche di approvvigionamento sono troppo lunghe e fragili. E che, in caso di emergenza, come adesso, i fornitori remoti sono incapaci di rispondere all’urgenza.

 

Per via dell’estremismo ideologico neoliberista, il mondo è andato troppo lontano nella delocalizzazione della produzione, nella deindustrializzazione e nella dottrina dello “zero stock”.

 

Ora, in una situazione di vita o morte, molti popoli hanno scoperto, attoniti, che per alcuni rifornimenti indispensabili – antibiotici, tamponi, mascherine, guanti, respiratori, ecc. – dipendiamo da fabbricanti localizzati agli antipodi. E che, nei nostri paesi, si fabbrica assai poco. La “guerra delle mascherine” ha creato una assai penosa impressione di impotenza.

 

Cresce la percezione del fatto che, con la mondializzazione, molti governi hanno rinunciato a dimensioni fondamentali della sovranità, la nostra indipendenza e la nostra sicurezza.

 

In molte capitali si critica il principio di una economia basata sulle importazioni. Diversi settori industriali saranno senza dubbio rimpatriati, rilocalizzati. Ritorna anche l’idea di pianificare. Di instaurare una qualche forma di socialismo. Ormai non scandalizza il ricorso a qualche dose di protezionismo. Le pressioni anti-globalizzazione diventeranno molto forti.

 

Dal 1979, la potenza che ha tratto più beneficio dalla globalizzazione economica è la Cina. Trasformato in “fabbrica del mondo”, questo paese è oggi la sola super-potenza in grado di fare da contrappeso, sullo scacchiere mondiale, agli Stati Uniti. Insieme a Unione europea, Giappone e Corea del Sud, Pechino continua ad essere uno dei maggiori difensori della globalizzazione. Le autorità cinesi stimano che l’anti-mondializzazione non risolverà nulla e che il protezionismo è un vicolo chiuso.

 

In ogni caso, l’iper-globalizzazione neoliberista sembra gravemente ferita e non è inverosimile prevedere un suo indebolimento. Perfino si discute la continuità, nella sua forma ultraliberista, dello stesso capitalismo. E si evoca anche la necessità di una sorta di colossale Piano Marshall mondiale. L’attuale tragedia deve spingere i popoli a reclamare un nuovo ordine economico mondiale.

 

La maggioranza dei governi ha fallito. Scossi come mai in tempo di pace non hanno saputo essere all’altezza della sfida. Né assumersi una delle loro competenze maggiori: proteggere le loro popolazioni. Quando fosse sconfitto il coronavirus, alcuni responsabili dovranno probabilmente renderne conto davanti a una giustizia somigliante almeno al Tribunale Russell, se non al Tribunale di Norimberga.

 

Molti leader si sono concentrati nel dare risposte locali, nazionali, gestendo la pandemia senza un vero coordinamento internazionale. Le grandi potenze si sono mostrate incapaci di coordinarsi a livello globale (che disastro, il Consiglio di sicurezza dell’Onu!) e costituire un fronte comune planetario. Quando è ovvio che nessun paese, per potente che sia, può vincere questa sfida con un impegno esclusivamente locale. Nessuna voce – nemmeno quella del Segretario generale delle Nazioni unite o quella dello stesso Papa – è riuscita a farsi sentire nel frastuono generale della paura e del furore di questo inaudito scuotimento.

 

Se è certo che è in tempi difficili che nascono i grandi leader storici, questa vicenda della pandemia si è caratterizzata per l’assenza di grandi leadership alla testa delle principali potenze occidentali.

 

La violenta crisi ha messo particolarmente alla prova la tempra di Donald Trump, che si è guadagnato, grazie alla sua gestione delirante, il giudizio di “peggior presidente statunitense di tutti i tempi” (Max Boot, « The worst President. Ever», The Washington Post, 9 aprile 2020). Per lui e per un certo numero di altri il nuovo coronavirus ha agito come una specie di Principio di Peter (o principio di incompetenza, per cui a far carriera sono i peggiori, ndt), denudando le sue menzogne e il suo strepitoso livello di incompetenza…

 

L’incubo che stiamo vivendo ha già cambiato le nostre società. Perturbazioni di ogni tipo di stanno producendo in molti aspetti della vita sociale… Decine di Stati – anche all’interno dell’Unione europea – hanno chiuso sine die le loro frontiere o le hanno militarizzate. Molti paesi e centinaia di città hanno decretato il coprifuoco per la prima volta in tempo di pace. Milioni di persone hanno rinunciato alla loro libertà di movimento.

 

La vita democratica è stata completamente sconvolta. Decine di processi elettorali sono stati rinviati. Le forze armate più potenti non sono sfuggite al contagio, stanno ritirando combattenti, facendo tornare indietro navi e confessando la loro impotenza di fronte a questo strano nemico invisibile. Le principali linee aeree hanno chiuso i loro voli. Le competizioni sportive più importanti – inclusi i Giochi olimpici, la Champion’s League di calcio, il Tour de France – sono state sospese e rinviate.

 

Metà dell’umanità cammina ora indossando una mascherina di protezione, mentre l’altra metà desidera mettersela, ma non la trova. Come sarà il pianeta quando la pandemia dovesse finire?

 

Il mondo avrà bisogno di voci che abbiano carisma e forza simbolica e che indichino un cammino collettivo per iniziare una tappa nuova, come accadde dopo la Seconda guerra mondiale. L’Onu dovrà essere riformata.

 

Con il fallimento della leadership degli Stati uniti si apre un pericoloso vuoto di potere. Il gioco dei troni si rilancia pericolosamente. L’Unione europea è anch’essa uscita malconcia, a causa della sua deludente mancanza di coesione. Cina e Russia hanno in cambio consolidato il loro ruolo internazionale prestando aiuti – come ha fatto anche Cuba – a molti paesi travolti dal collasso dei sistemi sanitari. Hanno aiutato anche gli Stati uniti! L’influenza internazionale di Pechino è cresciuta.

 

La pandemia è lunga. E’ possibile che il virus, mutando, si ritiri. Magari il prossimo inverno… Le cose non potranno continuare com’erano.

 

Come dice uno dei meme che più hanno circolato durante la quarantena: “Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità è il problema”.

 

La normalità ci ha procurato la pandemia. E la maggior parte dell’umanità non desidera continuare a vivere in un mondo tanto ingiusto, tanto ineguale, tanto omicida dell’ambiente.

 

Sapremo trarre un vantaggio da questo terremoto globale per costruire finalmente un mondo migliore?

 

 

(Traduzione di Pierluigi Sullo)

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