di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente
Le preoccupazioni, reali o esagerate, generate a livello globale dal diffondersi del Covid-19 hanno finito per oscurare nei media e nella diplomazia temi centrali di politica internazionale e gravi conflitti.
Tra questi la presentazione, lo scorso 28 gennaio, e le conseguenze dell’Accordo del secolo, così come è chiamato il “piano di pace” elaborato dall’Amministrazione Trump per israeliani e palestinesi. Annunciata, non a caso, durante la campagna per le elezioni israeliane del 2 marzo, e in linea con i passi favorevoli allo Stato ebraico mossi negli ultimi tre anni dal presidente americano – a cominciare dal riconoscimento unilaterale degli Stati uniti di Gerusalemme come capitale di Israele –, la proposta Usa scardina il diritto internazionale e non tiene in alcun conto lo status di Territori occupati di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Ma soprattutto apre la strada all’annessione unilaterale a Israele di ampie porzioni di Cisgiordania, a partire dalla Valle del Giordano, e prevede la costituzione di un minuscolo Stato palestinese senza sovranità e controllo dei suoi confini e del suo spazio aereo, e soggetto alle misure di sicurezza israeliane.
Non sorprende che i Palestinesi si siano rifiutati di partecipare alla presentazione del “piano di pace” a Washington – il premier israeliano Netanyahu al contrario era accanto a Donald Trump durante la cerimonia – e abbiano accusato l’Amministrazione statunitense di voler imporre un “progetto scritto da Israele” e creare un “apartheid legalizzato” in Cisgiordania, con la Striscia di Gaza che, persino più di oggi, finirebbe per diventare una enclave isolata e un “contenitore-prigione” per i suoi abitanti. Le “reti di trasporto moderne ed efficienti per una facile circolazione”, con ponti, strade e tunnel, per le persone e le merci, che secondo il piano dovrebbero collegare Gaza alla Cisgiordania, sono soltanto progetti fantasiosi dettati dall’idea di sicurezza di Israele. Non hanno convinto i Palestinesi neanche le astratte promesse di ingenti aiuti economici e finanziari fatte loro da Trump e che l’amministrazione Usa aveva già annunciato, tra lo scetticismo di analisti ed esperti, la scorsa estate al vertice di Manama. Fondi che, nell’idea americana, serviranno anche all’assorbimento di milioni di profughi palestinesi delle guerre del 1948 e 1967 da parte dei paesi arabi dove sono ospitati da oltre 70 anni. Una possibilità che quei paesi escludono categoricamente, mentre i palestinesi chiedono l’attuazione del “diritto al ritorno” per i profughi nella terra d’origine, come sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu.
Il piano Trump è stato criticato da Onu, Unione europea e vari paesi perché sbilanciato e unilaterale e non in linea con la soluzione “Due popoli, due Stati” indicata da varie risoluzioni internazionali dopo gli Accordi di Oslo del 1993 firmato da Israele e dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), all’epoca guidata da Yasser Arafat. Gli Usa affermano che quelle risoluzioni non siano applicabili perché non terrebbero conto della situazione concreta sul terreno – Israele è la parte dominante, più forte e pertanto impone le sue condizioni a quella più debole, i Palestinesi – e ritengono invece realistico uno Stato palestinese fantoccio, frammentato, circondato da Israele ad eccezione di Gaza e il suo confine con l’Egitto. Stato che, peraltro, secondo il piano non vedrà mai la luce se i Palestinesi non riconosceranno Israele come uno “Stato del popolo ebraico” e non di tutti i suoi cittadini (oltre il 20% della popolazione è palestinese), non disarmeranno “completamente” il movimento islamico Hamas (al potere a Gaza) e garantiranno trasparenza e funzionalità alle loro istituzioni.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha respinto più volte e con determinazione il progetto presentato dall’Amministrazione Trump, a febbraio anche al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, proclamandosi però pronto ad un accordo di pace con il popolo israeliano attraverso un negoziato fondato sulla legalità internazionale e garante della creazione di uno Stato di Palestina sovrano nei territori occupati di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Ha perciò tenuto una conferenza stampa al Palazzo di Vetro assieme all’ex premier israeliano Ehud Olmert, predecessore di Netanyahu, che si è proclamato contrario al piano Trump, schiacciato troppo sulle posizioni della destra israeliana per poter essere accettato dai Palestinesi e garantire una pace duratura tra i due popoli.
A detta di alcuni il rifiuto palestinese era stato programmato da chi ha messo nero su bianco il piano Usa – Jared Kushner, genero di Trump e inviato speciale americano in Medio Oriente –, in modo che non potesse essere applicato. Ad eccezione della parte che realmente interessa a Israele e al premier Netanyahu, ossia l’annessione unilaterale in tempi stretti da parte di Tel Aviv delle colonie ebraiche costruite dopo l’occupazione nel 1967. Parliamo del 30% del territorio della Cisgiordania, ma è solo la percentuale iniziale. Un team israelo-statunitense è al lavoro per disegnare le mappe dell’annessione ed è chiaro che Israele chiederà altre consistenti porzioni di territorio cisgiordano per “garantire” la sicurezza delle colonie e dei suoi “confini futuri” e la mobilità delle sue unità militari. Per questo molti ritengono che ai palestinesi, una volta ultimate le mappe, resterà non il 70 bensì il 40% della Cisgiordania, ossia le “aree autonome” create dagli Accordi di Oslo. Nessuno peraltro crede che Israele congelerà, come vorrebbe il piano, l’espansione dei suoi insediamenti coloniali per quattro anni, il lasso di tempo concesso da Trump ad Abbas per riconsiderare il “no” alla proposta. Anzi. Dopo il 28 gennaio sono stati subito approvati nuovi progetti per l’allargamento delle colonie. Senza contare che Israele sembra non avere alcuna intenzione di accettare che lo Stato di Palestina abbia come capitale i sobborghi di Gerusalemme Est come propone Trump. E questo vale sia che dopo il 2 marzo al potere in Israele ci sia Netanyahu – che il 17 marzo dovrà affrontare un processo per corruzione, frode e abuso di potere – o il suo rivale Benny Gantz, un “centrista” che più correttamente deve essere considerato parte della destra “moderata”.
A turbare la soddisfazione generata in Israele dal piano americano è stata la pubblicazione a febbraio di una lista, redatta dall’Ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i Diritti Umani, di oltre centro aziende israeliane e internazionali che operano e collaborano con gli insediamenti coloniali in Cisgiordania. Aziende che, almeno in teoria, potrebbero subire sanzioni. E qualche settimana prima la procura della Corte Penale dell’Aja ha annunciato una possibile indagine su crimini di guerra commessi nei Territori occupati. Sviluppi ai quali ha applaudito Mahmoud Abbas ma che rappresentano una magra soddisfazione per il presidente palestinese e il suo popolo. Alle reazioni delle Nazioni Unite e dell’Ue all’Accordo del secolo non sono seguite azioni concrete. Abbas ha chiesto il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina ma i Paesi europei si sono mostrati ancora una volta divisi su questo punto. Non solo. Il premier britannico Boris Johnson giudica con favore il piano Trump e, si dice, una volta realizzata completamente la Brexit, riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele. Contro le aspettative palestinesi è inoltre arrivato il benestare dell’Arabia Saudita e di altre petromonarchie (Emirati, Oman e Bahrain) che hanno lodato gli “sforzi” del presidente americano. Non basta il “no” della Giordania: il regno hashemita è troppo dipendente dagli aiuti Usa per schierarsi davvero contro i propositi dell’Amministrazione.
“L’Accordo del secolo fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner” prevede il politologo Ramzy Baroud, sottolineando che “uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele”. Ha ragione, ma il fallimento del piano non impedirà i passi unilaterali di Israele e Stati Uniti. E nel frattempo emerge evidente la difficoltà dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di mobilitare la popolazione dei Territori occupati contro l’Accordo del secolo. Proteste in Cisgiordania e Gaza si sono registrate solo nei giorni successivi al 28 gennaio, poi sono scemate. L’immagine di Abbas tra tanti palestinesi è negativa e non aiutano il presidente i suoi annunci di interruzione dei rapporti con Washington e Tel Aviv e del coordinamento di sicurezza con i servizi segreti israeliani che regolarmente restano lettera morta. Netto è il giudizio di Abbas e di Hamas espresso dall’analista palestinese Mariam Barghouti. “Nonostante la retorica – ha scritto sul sito di Al Jazeera – la leadership non ha saputo stimolare una reazione forte all’oltraggiosa violazione dei diritti palestinesi… perché per più di venti anni l’Anp ha partecipato alla repressione del popolo, mentre manteneva una stretta relazione con le forze di sicurezza israeliane. La sua attitudine, la sua retorica e le sue politiche passate e presenti sono sempre state indirizzate verso il mantenimento del potere ad ogni costo… Ciò non è per dire che Hamas sia un attore innocente; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha provato a far tacere le critiche”. Questo atteggiamento, aggiunge Mariam Barghouti, “lascia i Palestinesi disillusi” e danneggia “la loro capacità di mobilitarsi” in un momento critico.
Il presidente palestinese e il suo partito Fatah respingono le accuse. Affermano che il quadro è completamente mutato dopo la presentazione del piano Trump e che esisterebbero le condizioni per superare le divisioni tra Anp e Hamas (condannate da tutti i Palestinesi) e per ritrovare l’unità nazionale. Occorrerà però molto di più di qualche dichiarazione battagliera per rimettere in pista il progetto di indipendenza mentre il mondo dimentica l’ansia di libertà dei Palestinesi sotto occupazione
Tratto da: