COVID Marx, per un comunismo pandemico

di Fabio Ciabatti

 

Il distanziamento sociale cui ci costringe l’epidemia da COVID-19 si configura, a prima vista, come la versione più estrema dell’isolamento individualistico tipico della società borghese.

Il mondo che stiamo vivendo ci appare popolato da atomi che evitano qualsiasi rapporto sociale con gli altri atomi, fatti salvi quelli strettamente utilitaristici, necessari a soddisfare i bisogni materiali essenziali. Stando così le cose, sembriamo proprio fottuti, intrappolati come siamo in un sogno che non è il nostro. E’ il sogno di Margaret Thatcher: “La società non esiste. Ci sono solo gli individui, uomini e donne, e le loro famiglie”. Ma è davvero così?

 

Per rispondere a questa domanda partiamo da una famosa affermazione di Marx: “L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi”. Queste parole, seppur scritte nell”800 per polemizzare con le “robinsonate” degli economisti borghesi, possono aiutarci a comprendere qualcosa della crisi attuale. Per capire come sia possibile, aggiungiamo un’altra affermazione dello stesso Marx, immediatamente precedente a quella prima citata, che riporto di seguito con una piccola variazione: “l’epoca che genera questo modo di vivere, il modo di vivere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati” (nell’originale al posto della parola “vivere” si trovava “vedere”).

 

Quello che vorrei sostenere è che, per quanto paradossale possa sembrare, per isolarci al massimo al fine di evitare il contagio abbiamo bisogno del livello più alto possibile di sviluppo dei rapporti sociali. Non siamo in una società che si basa su piccole unità produttive sostanzialmente autosufficienti dal punto di vista della produzione dei beni di prima necessità, come poteva essere la società contadina precapitalistica.

 

Moltissimi beni che consumiamo vengono prodotti attraverso filiere produttive lunghe e internazionalizzate. Ogni singolo bene prevede l’interazione di una molteplicità di individui, organizzazioni, unità produttive sia a livello di produzione che di distribuzione. E’ evidente che ciascuna delle interazioni umane necessarie al nostro sostentamento, anche se ci limitiamo ai beni relativamente essenziali, porta con sé rischi di contagio. Occorrerebbe allora un altissimo livello di integrazione economica, sociale e politica per far funzionare una macchina così complessa al servizio di tutti i singoli individui separatamente presi assicurando loro il benessere materiale e al contempo minimizzando l’esposizione al virus.

 

Non indugiamo ulteriormente e spariamola grossa: per fare fronte efficacemente alla situazione di pandemia globale, senza dar luogo a dinamiche di pesante regressione sociale, avremmo bisogno di un sistema che iniziasse a somigliare vagamente al comunismo. Avremmo cioè bisogno di una società che cominciasse ad orientarsi in base al vecchio motto marxiano “a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Stiamo parlando di una società che dovrebbe provvedere ai bisogni di tutti, sia a livello strettamente medico che a livello socio-economico: capillare assistenza attraverso una sanità organizzata sul territorio, cure adeguate nei reparti ospedalieri, sussidi dignitosi per chi ha perso reddito e lavoro, distribuzione porta a porta di beni e servizi soprattutto per le persone più a rischio e così via. Ma per rendere ciò possibile dovrebbe funzionare l’altra faccia della medaglia: da ciascuno secondo le sue capacità. Ciascuno, in altri termini, dovrebbe attivarsi senza costrizione, nei limiti delle sue attitudini e possibilità, per rispondere alle necessità collettive.

 

Tutto questo, ovviamente, non potrebbe prescindere da una capacità di coordinamento dei produttori associati che prevedesse strumenti di programmazione con diversi livelli di centralizzazione, adeguatamente articolati con forme di autorganizzazione a livello territoriale. Una programmazione che fosse in grado di concentrare gli sforzi sulle produzioni essenziali, di riconvertire rapidamente la macchina produttiva laddove necessario, di accorciare le filiere anche in presenza di momentanee perdite di produttività, di distribuire capillarmente e equamente i beni necessari. E visto che non ci vogliamo nascondere, il fatto che molte produzioni attuali si basano su filiere internazionali, un coordinamento come quello che stiamo immaginando andrebbe a prospettare i primi embrioni di una’autentica “comunità umana”.

 

Il “regno della libertà” rappresentato dalla “comunità umana” è però ancora lontanissimo. Dobbiamo ancora imparare a gestire adeguatamente il “regno della necessità”. La nostra società dimentica troppo facilmente che la produzione rimane sempre ed essenzialmente “ricambio organico tra l’uomo e la natura”. Una natura che pone limiti a ciò che possiamo fare individualmente e socialmente. Ce ne siamo scordati perché siamo prigionieri dell’illusione di una crescita senza fine. Il singolo capitalista, da quando si è affacciato sul proscenio della storia moderna, ha sempre avuto una sola e meschina ossessione: l’incessante autovalorizzazione del suo capitale. E l’intero sistema gli è continuamente andato appresso. Più recentemente siamo diventati collettivamente adoratori del feticcio per eccellenza, il capitale fittizio. Stiamo parlando, per intenderci, del capitale finanziario che sembra capace di moltiplicarsi a dismisura senza doversi sporcare le mani con il mondo materiale. Denaro che produce altro denaro e niente di più. E, infine, c’è stata un’altra diffusa allucinazione, tutta postmoderna, quella della smaterializzazione degli strumenti e dei processi lavorativi.

 

Il COVID-19 sta lì a ricordarci che esiste una realtà oggettiva fuori del nostro controllo individuale e sociale. La pandemia ci rammenta che la natura non è un docile strumento nelle nostre mani, ma può diventare matrigna. Affrontando la diffusione del coronavirus e le sue conseguenze socio-economiche ci scontriamo dunque con un fenomeno naturale che non può essere manipolato a nostro piacimento, o immediatamente eliminato, ma soltanto parzialmente governato nei suoi effetti. In questo contesto, l’unica libertà possibile rimane quella che indicava Marx quando sosteneva che mai e poi mai si sarebbe potuto abolire il regno della necessità: l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa.

 

D’accordo, sembra proprio che stiamo lasciando correre a briglia sciolta la fantasia. Ma si può dire che ogni crisi profonda e generale dei rapporti sociali, quale che ne sia la causa immediata, sospendendo il normale corso delle cose, apre temporaneamente alla realizzazione di inedite possibilità, a un potenziale momento di svolta storica in bilico tra rigenerazione e apocalisse. O se si preferisce tra socialismo e barbarie. Oggi, a dire il vero, sembra che sia la barbarie ad avanzare a passi rapidi. Se la società non esiste ma ci sono gli individui allora è naturale il laissez-faire all’immunità di gregge e, cioè, al darwinismo sociale allo stato puro. Ma anche il sogno più persuasivo che i nostri governanti ci costringono a sognare deve fare i conti con il principio di realtà. La società alla fine non può che manifestarsi e finisce per assumere le caratteristiche di un Leviatano che regola autoritariamente ogni aspetto della vita individuale. Guai a chi si muove da casa!

 

Quanto più individuo e società appaiono come entità meccanicamente separate tanto più l’organizzazione sociale della vita individuale appare intrinsecamente oppressiva. Un’apparenza che è reale e, al tempo stesso, ingannatrice perché nella società concreta siamo davvero tutti individui ma alcuni sono più individui di altri: il laissez-faire vale solo per l’attività di impresa mentre per il resto della vita sociale ci si deve attenere ad una ferrea regolazione sociale.

 

In fin dei conti tutto ciò non dovrebbe sorprenderci. “Après moi, le déluge! è la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista. Quindi il capitale non si cura della salute o della durata della vita del lavoratore, a meno che non sia costretto dalla società”. Questo dovrebbe essere noto da tempo, almeno per chi ha un po’ di familiarità con le idee marxiane. Però oggi, come non mai, tutti quanti rischiamo concretamente di essere sommersi da questo diluvio. Mai come in questo momento è stato chiaro che la riproduzione del capitale è in contraddizione con la riproduzione sociale complessiva, cioè con la salute e la sopravvivenza dei singoli individui. I singoli lavoratori devono andare al lavoro anche se privi di ogni dispositivo di protezione potendosi infettare in ogni momento o devono rimanere a casa in quarantena anche quando nessuno provvede alle loro esigenze mediche o di sussistenza. E poco male se i vecchi muoiono a grappoli nelle Residenze Sanitarie Assistenziali, così risolviamo il problema delle pensioni!

 

Stiamo esagerando? Per prima cosa bisogna considerare che la crisi attuale ce la porteremo avanti per molto tempo ancora sia a livello di emergenza epidemiologica (“La domanda non è se ci sarà una seconda ondata, la domanda è se impareremo dalla lezione che abbiamo avuto finora” ha detto Hans Kluge, direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa) sia a livello di conseguenze socio-economiche (il Fondo Monetario Internazionale prevede per questo anno una caduta del PIL del 9,1% in Italia e del 3% a livello mondiale). A posteriori veniamo a sapere che gli epidemiologi si aspettavano una pandemia già da tempo. Le condizioni che l’hanno provocato non verranno meno una volta debellato il COVID-19. La situazione potrebbe benissimo ripetersi.

 

Come sempre il capitale utilizza la crisi per riorganizzarsi e, scontrandosi con i suoi limiti intrinseci, cerca nuove soluzioni per soddisfare la sua infinita brama di sfruttamento. Dalla situazione attuale, dunque, usciranno profondamente mutati gli equilibri e i rapporti di forza tra le diverse fazioni del capitale. Chi ha interrotto per meno tempo la produzione, chi non lo ha fatto per niente e chi riceverà più aiuti dal proprio Stato, avrà dei forti vantaggi, alle volte decisivi, nella competizione internazionale. I padroni sono vampiri assetati di sangue, anche quando è infetto. Ma lo sono anche perché tra le singole fazioni capitalistiche è sempre in corso una guerra che per molti capitali può rivelarsi fatale. Questa però è solo una parte della storia perché saranno trasformati anche i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Solo per fare un esempio, si sta sperimentando su larga scala un utilizzo del telelavoro che aumenta lunghezza e intensità della giornata lavorativa diminuendo al contempo i costi di esercizio per il capitale. Una manna dal cielo per lor signori anche senza considerare il più che probabile utilizzo di distanziamento e tracciamento anti-contagio come strumenti di controllo sociale.

 

Fortunatamente ci sono anche segnali che indicano una direzione opposta: dagli scioperi spontanei nelle fabbriche a forme embrionali di autorganizzazione sul territorio per far fronte collettivamente alle prime esigenze materiali.

 

Di certo molti nodi stanno venendo al pettine. C’è un’esigenza di fermarsi a riflettere, di comprendere le dinamiche concrete della crisi attuale che ha caratteristiche, per molti versi, inedite. Un’esigenza che non può essere soddisfatta semplicemente applicando a una situazione nuova vecchi strumenti concettuali. Utilizzare Marx, come è stato fatto in questo articolo, di certo non basta. Però aiuta. E di aiuti abbiamo dannatamente bisogno perché ci troviamo di fronte a un’urgenza politica cui non ci si può sottrarre. La locomotiva della storia sembra aver accelerato improvvisamente senza curarsi dei pericoli sempre più concreti di deragliamento. Nessuno può scendere. Abbiamo bisogno di tirare il freno d’emergenza. Per poi ripartire verso una diversa direzione, per molti aspetti sconosciuta.

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