La trasversalità del populismo

di Gigi Galli

 

La Lega dei Ticinesi e le tentazioni di un leghismo di “sinistra”. Da quali istanze è nato il leghismo in Ticino negli anni novanta? C’è stata o c’è ancora un’anima sociale nella Lega? Che cosa possiamo intendere, nel campo progressista, per “socialista leghista” o “ecologista leghista”?

 

I termini populismo, sovranismo e leghismo sono entrati da qualche tempo nel linguaggio della politica, creando non poca confusione e mettendo apparentemente in crisi le categorie per molto tempo consolidate di destra e di sinistra. L’ambiguità sta forse già nella radice e nell’indeterminatezza dei termini. Il concetto ottocentesco di popolo, quello delle rivoluzioni borghesi, non è più riesumabile. Chi lo riprende attingendo strumentalmente dall’archivio dei miti gli attribuisce una connotazione non solo anacronistica ma prevalentemente etnica e nazionalista (il “nostro” popolo ecc.), alludendo implicitamente alla contrapposizione popolo-governanti, popolo vs élite. Oggi abbiamo a che fare con una moltitudine liquida caratterizzata da diritti e interessi differenziati. Chiamarla “popolo” può confondere le idee e mascherare le reali contraddizioni. Ciò che il populismo, quello leghista compreso, intende affermare è, come scrive Marco Revelli, “il confronto verticale del popolo tutto intero nella sua incontaminata purezza originaria e di una qualche altra entità che si pone, indebitamente, al di sopra di esso (un’élite usurpatrice, una congrega di privilegiati, un potere occulto) oppure, insinuante, al di sotto (gli immigrati, gli stranieri, le comunità nomadi)” (Populismo 2.0, Einaudi, 2017; si veda anche Turbopopulismo. La rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche, Solferino, 2019). Il populismo di destra mira quindi a dividere lo spazio politico e territoriale in “alto e basso”, in “noi” e “loro”. Dentro questa prospettiva, il sovranismo non esprime dunque più un semplice significato di autoderminazione bensì di (non troppo mascherato) nazionalismo: difesa dei confini e della comunità locale contro le spinte centrifughe sovranazionali indotte dalla globalizzazione.

 

L’idea del leghismo in Ticino è nata da un outsider che, partendo dai suoi guai personali, ha saputo insinuarsi nella crisi dei partiti tradizionali e della rappresentanza sfruttando alcune sue buone intuizioni e ricucendosi addosso un carisma burlesco. La Lega è cresciuta quando una parte del “popolo” non si è più sentita rappresentata dal ceto politico locale e ha voluto affidarsi alla demagogia di chi gli ha subito saputo offrire un capro espiatorio (Berna, gli asilanti, i frontalieri) e una visione della realtà molto semplificata. Il carattere dominante della Lega va dunque cercato sin dall’inizio nelle problematiche identitarie e di rappresentanza più ancora che nella composizione sociale popolare e nei bisogni oggettivi di quella parte di “popolo” messa in difficoltà alla fine del periodo di crescita economica. La confusione tra identità regionale e interesse di classe sociale ha generato anche in Ticino, dentro il diffuso declassamento del ceto medio e lo sfarinamento del mondo del lavoro, l’idea falsa e pericolosa che la Lega fosse nata da “una costola della sinistra” e che dunque potesse essere in qualche modo utilizzata o suggestionata. Chi si è illuso di farlo si è bruciato le dita o ha dovuto ritirarle per tempo. Sia ben chiaro, il fatto che la Lega abbia contribuito a svuotare l’elettorato orientato in precedenza a sinistra non implica che la Lega abbia ereditato e porti avanti talvolta, nonostante tutto, istanze di sinistra. Quando i ceti sociali meno abbienti e quelli più colpiti dalla (relativa) recessione si sono resi conto che il Partito Socialista entrava a far parte dell’élite, si identificava con lo Stato e con le ragioni dello sviluppo liberale keynesiano, tralasciava la funzione di rappresentanza attribuendosi in primo luogo quella di responsabilità, questi ceti si sono rivolti altrove. La rabbia sociale e la solidarietà si sono trasformati in rancore, denigrazione e intolleranza. Nel leghismo ticinocentrico non ci sono i valori del socialismo: il leghismo contraddice il tendere verso una società solidale e inclusiva. La cosiddetta anima sociale della Lega è un mito o un espediente che alcuni suoi “colonnelli” usano per non farsi risucchiare dal partito conservatore blocheriano.

 

Presentandosi come unico baluardo della difesa identitaria (“prima i nostri”), la Lega ha preso poco a poco il sopravvento, sdoganando i suoi disvalori e il suo linguaggio volgare e denigratorio anche all’interno degli altri partiti, dando la stura a una xenofobia che in Ticino sta oramai dilagando. La Lega minoritaria e movimentista della fase aurorale, esterna alle istituzioni, dopo aver influenzato gran parte del paese, abbandonando lo spirito barricadiero dei padri fondatori, è riuscita a diventare forza di maggioranza relativa, a diventare essa stessa istituzione. L’antipartito che diventa partito potrebbe però essere costretto ora a mangiarsi la coda. Di conseguenza, la sua volgare retorica anti-élite pare destinata a perdere mordente e attualità. Infatti, è mai possibile che l’agitazione populista nata dal basso venga ora utilizzata apertamente da chi sta in alto? Staremo a vedere.

 

Intanto, anche in Ticino, non pochi tra verdi e socialisti, forti del loro radicamento sul territorio, attratti dal linguaggio plebeo dei leghisti e votati alla semplificazione delle analisi, confidano di trovare nel populismo una via facile per riguadagnare posizioni e tornare in auge in termini di rappresentanza. In questa tesi sono sostenuti da illustri studiosi come i filosofi post-marxisti Chantal Mouffe (Per un populismo di sinitra, Laterza, 2019) e Ernesto Laclau (Populismo e democrazia radicale, Ombre corte, 2012), che tuttavia si riferiscono a esperienze ben più qualificate e da noi non riproducibili (Syriza in Grecia, Podemos in Spagna).

 

In un paese ricco come il nostro, privo di masse marginalizzate, dove il riflesso populista è dato più da una presunta minaccia proveniente dall’esterno che non da un reale generalizzato impoverimento, può essere sostenibile un populismo di sinistra senza cadere in una sorta di leghismo? Con quali eventuali esiti contrapporre un populismo protestatario di sinistra ad un populismo identitario di destra?

 

Solo là dove è possibile costruire un “popolo”, una volontà collettiva che sia l’esito della mobilitazione degli effetti comuni in difesa dell’uguaglianza e della giustizia sociale, secondo Mouffe, sarà possibile combattere le politiche xenofobe promosse dal populismo di destra. Non ricorrere al populismo di sinistra, non abbracciare in senso inverso la dicotomia basso/alto, equivarrebbe, a suo parere, ad essere esclusi dalla contesa ed essere condannati a continue sconfitte elettorali.

 

Nel populismo trasversale rileviamo elementi comuni: la costruzione di un noi identitario, l’appello al “popolo”, l’avversione nei confronti delle élite e dell’establishment, la forte presenza mediatica, la semplificazione delle analisi e dei messaggi e il ricorso a forti carismi personali.

 

La scelta del populismo nella sinistra nascerebbe per reazione a una socialdemocrazia che si è resa impotente e non sa più comunicare con quel “popolo” che un tempo ha rappresentato. Ma è data anche dal timore di cadere nella marginalità della sinistra radicale, colpevole di essere chiusa nei propri settarismi e di aver perso mordente.

 

È vero che per colmare lo scarto che separa i partiti di sinistra, moderati e radicali, dal proprio “popolo” e per ovviare alla loro perdita di consenso e di egemonia culturale occorrerebbe che essi dispongano di una leadership all’altezza della situazione, dotata di maggiore spessore e carisma, in grado di individuare il proprio referente che non è più il “popolo operaio” e non di certo il “popolo dei nostri”, bensì una moltitudine eterogenea e multiculturale che si riconosce in una comune volontà di cambiamento. Sarebbe però semplicistico attribuire il deficit di rappresentanza alla loro incapacità di comunicazione (si veda Eric Fassin, Contro il populismo di sinistra, Manifestolibri, 2019). Per colmare lo scarto con il proprio “popolo” bisognerebbe, per cominciare, conoscere questo popolo e sapersi calare al suo interno. In Ticino i vari partiti della sinistra non conoscono quasi più i loro elettori. Lo vediamo, per esempio, in occasione della composizione delle liste per le comunali, quando fanno fatica a trovare candidati.

 

Inoltre, per comunicare efficacemente, occorrerebbe trovare nuovi contenuti, rinnovare le idee in contrasto con quel sistema socioeconomico che il sovranismo populista non ha mai messo in discussione. Offrire una lettura chiara delle trasformazioni sociali in atto e da questa lettura far scaturire una radicalità positiva. Uscire dalla contrapposizione “noi e gli altri” per riprendere in mano il punto di vista delle classi subalterne. Saper deterritorializzare le identità e dare in maniera credibile la sensazione che un’alternativa rossoverde possa concretizzarsi.

Tratto da: