Il futuro del lavoro dopo la pandemia? Pieno di trappole da sventare

di Sergio Cararo (da “Contropiano.org”)

 

“Il futuro del lavoro? E già qui, grazie al Covid 19”. No, non siamo diventati matti nè ci trastulliamo con i paradossi. Il fatto è che con, e dentro, la pandemia di coronavirus, nel mondo del lavoro sono intervenute in pochissimo tempo delle profonde modifiche ai processi, alle strutture e ai luoghi fisici della produzione.

La pandemia è stato il fattore scatenante ma, secondo un’analisi elaborata della Columbia University, il nuovo modo di lavorare, nato con l’emergenza, è destinato a durare ed a caratterizzare il prossimo futuro.

 

Secondo un’analisi del preside della Columbia University, Jason Wingard, pubblicato dal sito americano Quartz, molte soluzioni adottate dalle imprese per far fronte ai problemi determinati dal lockdown sono state sorprendentemente innovative. Il titolo è già tutto un programma: “Il futuro del lavoro è qui, grazie al Covid 19”.

 

Secondo Wingard, figure come impiegati, amministrativi, funzionari, con la crisi pandemica sono stati semplicemente catapultati direttamente in un mondo del lavoro sul quale da tempo erano in orso tentativi di ristrutturazione (e di destrutturazione, che non è affatto la stessa cosa, aggiungiamo noi). Il preside della Columbia, docente di “gestione del capitale umano” (che brutta categoria!, ndr), si è chiesto quali siano i fattori necessari per accelerare il passaggio a un luogo di lavoro più remoto, basato sui dati e incentrato su un maggiore impatto.

 

La pandemia è stato il catalizzatore, ma secondo Wingard i nuovi modi di lavorare resteranno a lungo, e si articoleranno intorno a quattro fattori che lui definisce come “pilastri”, vediamo quali.

 

 

 

Orari di lavoro? Flessibili ovviamente

 

Per Wingard la definizione di giornata lavorativa è cambiata; non è più limitata a un certo numero di ore condivise da tutti i dipendenti. Soprattutto per i genitori, la giornata di lavoro è diventata tutto il tempo in cui possono inserirsi, ogni volta che scende il numero di persone che si contendono la loro attenzione.

 

La vecchia definizione della parola ufficio è cambiata radicalmente. Si è estesa oltre i cubicoli e gli spazi di lavoro in comune per includere i tavoli della cucina, i divani e persino i bagni. Senza i confini di un ufficio fisico o di un rigido orario di lavoro, i dipendenti sono stati costretti a stabilire – e a comunicare – la propria disponibilità, in base ai propri orari personali e ai livelli di produttività. Un tipico cambiamento da futuro del lavoro.

 

Se qualcuno ha pensato che lo smart working (o lavoro da remoto, cominciamo magari a declinarlo in italiano, ndr) possa abbassare la produttività perché i dipendenti non sono “sotto l’occhio del capo o del padrone”, i dati sembrano smentirlo. Secondo Wingard, al contrario, c’è il timore opposto: che, senza una linea di demarcazione netta tra ufficio e vita domestica, i dipendenti possano finire per lavorare troppo.

 

Lo studio cita un sondaggio condotto su più di 4.500 sviluppatori e tecnici, nel quale il 66% dei lavoratori a distanza ha riferito di sentirsi già “cotto” dallo stress. Il motivo? Più della metà ha citato orari di lavoro più lunghi.

 

 

 

Misurare i dipendenti in base ai risultati. Il ritorno del cottimo

 

Il professor Wingard sostiene che in un ambiente più flessibile, i capi non hanno bisogno di valutare “a occhio” le prestazioni dei dipendenti, anzi. Dovranno semplicemente creare nuove metriche per misurare il loro lavoro, poiché non saranno più in grado di giudicare l’efficacia dei dipendenti, per esempio, sulla base delle ore passate in ufficio.

 

Il quotidiano economico Milano Finanza riferisce ad esempio che i giganti dei Big Data, come Google e Facebook, hanno avvisato tutti i loro dipendenti che lavoreranno da remoto almeno fino alla fine del 2020. Oppure in Automattic, l’azienda che ha creato WordPress, tutti i 1.180 dipendenti lavorano in remoto.

 

Per misurare il successo individuale, ricorda Wingard, il Ceo Matt Mullenweg ha detto che l’azienda si concentra sugli output piuttosto che sugli input. Invece di valutare le ore o la disponibilità di un dipendente, Mullenweg chiede: “Che cosa state producendo ora, in realtà?“.

 

Una volta stabiliti i nuovi parametri di misurazione della produttività, i capi devono comunicarle e programmare incontri con i membri del team per rispondere alle domande ed eliminare eventuali intoppi. Wingard consiglia di impostare anche incontri personali con i dipendenti con cadenza regolare, perché secondo alcune osservazioni, i dipendenti “manifestano una maggiore esigenza di feedback del loro operato quando sono lontani”.

 

 

 

Convivere con la pandemia e il suo impatto sociale

 

Nell’agosto del 2019, la Business Roundtable, un gruppo di 181 capi azienda americani aveva ampliato la definizione di scopo di una società per includere “il sostegno alle comunità in cui lavoriamo“. Martellati da una moral suasion martellante e invasiva, i dipendenti ed anche i clienti finiscono per rivelare una forte attenzione ai valori aziendali con cui interagiscono.

 

Secondo Wingard, il futuro del lavoro ha ”il bene sociale fuso all’interno del suo nucleo”. Un’immagine idilliaca che cozza decisamente con il cinismo che abbiamo visto in Italia da parte di Confindustria e dei suoi corifei.

 

Ma ancora dagli Usa arriva l’input per cercare di abbellire quello “spirito imprenditoriale” che mai come in questi mesi in molti, aprendo finalmente occhi e cervello, hanno cominciato a guardare con sospetto. Per questo, secondo Wingard, i capi azienda lungimiranti devono dare priorità all’impatto sociale dell’azienda e costruire relazioni a lungo termine con le organizzazioni no-profit, offrendo risorse, finanziamenti e opportunità di volontariato, coltivando così una cultura del lavoro e dei luoghi dove avviene che dovrebbe dare una immagine con qualcosa in più della semplice ricerca del profitto.

 

E il settore No profit (o “terzo settore”, come lo chiamiamo in Italia) offre una perfetta sponda a questa operazione ideologica.

 

 

 

Ridurre le formalità, gestire un linguaggio smart

 

L’analisi rileva come le comunicazioni, anche sul posto di lavoro, sono ormai piene di emoticon e di abbreviazioni, in alcuni casi i tweet e i gruppi chat dei dipendenti investono anche questioni che una volta restavano all’interno dell’azienda (provocano numerosi incidenti di immagine e altrettanti licenziamenti).

 

Dentro una fase di crisi globale e di ampio ricorso a modalità di comunicazione online diffuse e pervasive, molte formalità sembrano dileguarsi. Con i meeting organizzati su Zoom ognuno è entrato anche nella casa del collega o del capo. Wingard sostiene che il termine stesso “business casual” usato per il codice di abbigliamento sul lavoro, ha assunto un nuovo significato.

 

E’ anche vero però che il “lavoro da remoto” ha eliminato o ridotto al minimo ogni interazione. Senza le macchinette del caffè in cui fare squadra o scambiarsi pettegolezzi e senza le battute in ufficio, i dipendenti finirebbero per sentirsi con i colleghi solo quando è necessario, quando serve qualcosa.

 

Secondo Wingard i capi azienda devono sforzarsi di combattere questo pericolo, incoraggiando connessioni come “Pranzi virtuali o happy hour, club del libro online e sfide di esercizi fisici di cucina, va incoraggiato tutto ciò che fa comunicare i membri del team su qualcosa di diverso dalla mera lista di cose da fare”.

 

Il preside della Columbia University afferma poi che è difficile immaginare il giorno in cui la pandemia di Covid-19 non controllerà più la maggior parte degli aspetti della nostra vita, ma quel prima o poi arriverà.

“Quel giorno, i capi azienda più intelligenti non si affretteranno a tornare ai vincoli delle formalità inutili, dei cubicoli o dei pendolari. Al contrario, accetteranno che il futuro del lavoro è già arrivato e, così facendo, prepareranno se stessi e i loro team a tutto ciò che verrà dopo”.

 

Insomma siamo di fronte ad una vera e propria terapia shock sul lavoro che, come di consueto, verrà ammantata di modernità e di innovazione.

 

Il problema è che il sistema che la sta producendo, quello capitalista, ha dimostrato di essere piuttosto incapace di far coincidere con se stesso le istanze di emancipazione sociale. Al contrario. Se così fosse non ci sarebbe alcuna opposizione ad una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro che restituirebbe a lavoratrici e lavoratori tempo liberato dal lavoro.

 

E invece e proprio perché il plusvalore continua a poter essere estorto dal lavoro umano piuttosto che dalle macchine, questo sistema nega ogni processo di liberazione del fattore umano, rafforzando invece i meccanismi di estorsione e sfruttamento anche dal lavoro mentale degli uomini e delle donne in carne ed ossa messi in produzione.

 

E’ la contraddizione del capitale, quella che, speriamo – ma dobbiamo agire attivamente in tal senso -, lo seppellirà.