DECRESCITA E CINISMO PER IL DOPO PANDEMIA

PIAZZA APERTA - Danilo Baratti, Verdi Lugano

Il 15 maggio il «Corriere del Ticino» ha intervistato, in merito alle prospettive del dopo-coronavirus, l’economista Rico Maggi, direttore dell’IRE, che si è scagliato contro la decrescita: «Una decrescita può essere felice solo per chi è privilegiato. 

 

Per chi non è ricco da noi oppure vive nelle parti povere del mondo, parlare di decrescita felice è puro cinismo. Semmai si deve parlare di sviluppo più sostenibile, concetto che include oltre l’ambiente anche l’equità e soprattutto l’efficienza».

 

Prima di vedere se Maggi ha ragione facciamo un po’ di storia del concetto. Lo si fa risalire spesso alla décroissance teorizzata da Serge Latouche all’inizio di questo millennio, ma il termine è apparso già nel 1979, nel titolo di una raccolta di scritti dell’economista Nicholas Georgescu-Roegen. Applicando alla riflessione economica il secondo principio della termodinamica, Georgescu-Roegen affermava che tenendo conto dell’entropia, della sua irreversibilità, nemmeno una società stazionaria sarebbe stata sostenibile. Bisognava pensare la decrescita. Nel passaggio all’ecologia politica il termine è poi diventato una sorta di grimaldello per la rimessa in discussione radicale del nostro modello di sviluppo. Come dice Latouche, non si tratta di un programma economico, ma di «una finzione performativa per indicare la necessità di una rottura con la società della crescita e favorire l’avvento di una nuova civiltà. Si tratta di costruire una società altra, una società di abbondanza frugale» (ecco un ossimoro assai meno ossimorico dello «sviluppo sostenibile» richiamato da Maggi, che implicando una crescita quantitativa, sostenibile non è affatto).

 

Si potrebbe anche fare una storia della «decrescita prima della decrescita», chiamando in causa pensatori come Henry David Thoreau – con lui risaliamo agli albori dell’età contemporanea – Jacques Ellul o Ivan Illich. Tratto comune sono scelte etiche e riflessioni politiche all’insegna dell’«austerità conviviale», della «semplicità volontaria», della «sobrietà». La scelta di ridurre i consumi non risponde solo alla consapevolezza della finitezza delle risorse del pianeta: non si tratta di essere sobri solo per necessità economica o lucidità politica, ma anche per realizzare e apprezzare un altro stile di vita, che porti un benessere qualitativo e non quantitativo, che apra nuovi spazi di relazione e creazione. Così si spiega l’aggettivo «felice» utilizzato dal teorico italiano della decrescita Maurizio Pallante (devo dire che a me quell’aggettivo un po’ tanto piacione ha sempre dato un certo fastidio e preferisco la formula «decrescita serena» usata da Serge Latouche).

 

E torniamo allora all’affermazione di Rico Maggi per fargli presente, con le parole di Latouche, che «la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative, che riapre l’avventura umana alla pluralità di destini e alla creatività, sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus (…) Evidentemente per le società del Sud l’uso dello slogan decrescita sarebbe assurdo, quasi indecente. In alternativa, il progetto di costruire una società di abbondanza frugale ha tutto il suo senso. Riaprendo lo spazio alla diversità culturale, la decrescita è fondamentalmente plurale (…). Il cammino verso la società di abbondanza frugale può dunque essere preso in considerazione da tutte le società e, a priori, dalle più diverse organizzazioni politiche. Ne consegue che la società di a-crescita non si realizzerà nella stessa maniera in Europa, nell’Africa sub-sahariana o in America latina, né sotto il vessillo della parola slogan decrescita, intraducibile al di fuori delle lingue neolatine, e assurdo per le società in cui la popolazione vive al di sotto della soglia della povertà».

 

Rico Maggi concludeva con questa previsione: «Il nostro modello di sviluppo economico non cambierà, ma prenderà lentamente una forma piu sostenibile». Temo che in questo invece abbia ragione. C’è da credere che lo scossone del coronavirus sarà momentaneo, e poi tutto riprenderà più o meno come prima, tutt’al più in una forma leggermente, e lentamente, «più sostenibile». È una prospettiva che dovrebbe inquietare pensando alle generazioni future. A meno di essere davvero cinici.