Q26 - L'editoriale
Molti economisti avevano predetto che la recessione ci sarebbe stata: l’unica incertezza era quando. Gli istituti di ricerca tedeschi la prevedevano in Germania per la seconda metà di quest’anno.
Salvo alcuni scienziati, regolarmente snobbati dai politici e dai media mainstream, nessuno si era però mai immaginato che sarebbe bastato un nuovo virus a provocare quella che ormai tutti ritengono come la peggior crisi socioeconomica da 100 anni a questa parte.
E se allora furono le devastazioni della guerra mondiale imperialista ad amplificare enormemente la tragedia dell’influenza spagnola, questa volta è stata la variante neoliberista del capitalismo che ci ha fatti trovare del tutto impreparati a questo evento pandemico.
Avendo coltivato, nel corso degli ultimi decenni, le pratiche dello “zero stock” e della produzione “just in time” con l’obiettivo di aumentare la remunerazione dei capitali impiegati e di massimizzare il valore delle azioni borsistiche, le imprese del mondo capitalista si sono trovate in enorme difficoltà di fronte all’interruzione delle catene di approvvigionamento. Tutti si sono accorti che appena vengono a mancare un paio di tasselli, queste filiere sempre più lunghe, alla ricerca di costi di produzione sempre più ridotti grazie a salari sempre più bassi, vanno totalmente in tilt. Anche gli Stati, sempre più dediti alla competitività fiscale, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008 (quando hanno dovuto salvare a suon di migliaia di miliardi le banche), hanno compresso le proprie spese: servizi pubblici ridimensionati o privatizzati, letti disponibili negli ospedali “aziendalmente ottimizzati”, stock strategici ridotti o venduti, cosicché molti paesi hanno dovuto affrontare l’irruzione della pandemia senza sufficienti scorte di maschere protettive e di sostanze disinfettanti.
Dopo le varie epidemie di SARS all’inizio del secolo, molti virologi avevano messo in guardia contro una pandemia, probabilmente da un nuovo coronavirus. La soluzione sarebbe stata quella di preparare un vaccino polivalente, che avrebbe permesso se non di evitare, però perlomeno di attutire l’impatto della pandemia. I necessari costi per prepararlo erano stati stimati ad alcune centinaia di milioni; ma i monopoli farmaceutici se ne erano disinteressati: i vaccini garantiscono un margine di guadagno ridotto.
Questi monopoli da alcuni decenni si concentrano quasi esclusivamente sulla produzione di nuovi medicamenti che, pur essendo magari di utilità limitata, possono garantire loro degli elevatissimi margini di profitto. Noam Chomsky, nella sua istruttiva intervista concessa poche settimane fa alla RSI, ha riassunto questa situazione dicendo che questi monopoli preferiscono produrre “creme per la pelle piuttosto che vaccini”. Addirittura molti dei vecchi farmaci, sempre molto utili ma che non consentono forti guadagni, vengono ormai prodotti soltanto in Cina o in India: per esempio, la quasi la totalità del paracetamolo - sostanza fondamentale per i farmaci contro dolori e febbre - viene prodotta in Estremo Oriente.
Globalmente la Svizzera non se l’è cavata troppo male, grazie alla buona efficienza della sua burocrazia (a parte il BAG che lavora ancora con il fax!), ma soprattutto perché buona parte del paese è stata toccata solo marginalmente dalla pandemia. Non eravamo però ben preparati: basti pensare alla tragicommedia sulla non obbligatorietà delle mascherine, dettata dal fatto che non ce n’erano abbastanza, essendo state liquidate buona parte delle scorte. Ed il “meno Stato” aveva fatto anche da noi diverse vittime illustri: basti pensare all’Istituto dei vaccini, di proprietà della Confederazione, ed uno dei migliori al mondo, che è stato dapprima privatizzato e poi inglobato in un monopolio farmaceutico. Per fortuna, grazie alle possibilità della democrazia diretta, si è potuto resistere in buona parte alle pressanti richieste delle grandi casse malati e della destra UDC/Liberale di ridurre drasticamente il numero degli ospedali.
Questa crisi ha anche chiaramente dimostrato qual è il tallone d’Achille della nostra sanità: la dipendenza enorme da medici ed infermieri provenienti dai paesi limitrofi. E checché ne dicano ora i “Primanostristi” locali, questa dipendenza è stata creata ad arte dalle alleanze UDC/Liberali/PPD per poter tener basse le imposte per i ricchi, sia a livello federale che soprattutto nei cantoni: costa molto meno sottrarre medici ed infermiere già preparati ai paesi limitrofi che formarli qui da noi. Uno dei tanti disastri creati dal neoliberismo imperante.
Anche questa volta, come ai tempi della spagnola, il virus non è stato per niente democratico e non pensiamo solo alla strage di afro-americani a New York o di poveri nelle banlieue parigine. Chi ha potuto scappare nella propria villa in Engadina ha sopportato questo lockdown molto meglio dei genitori proletari che vivono con uno o due figli in un piccolo appartamento. Sarebbe interessante avere delle informazioni sullo stato sociale di coloro che sono deceduti, ma purtroppo in Svizzera questo tipo di dati è quasi impossibile da ottenere. Nel 1918 ci furono decine di migliaia di morti tra i lavoratori obbligati a lavorare durante la pandemia, oltre ai 2-3’000 giovani soldati morti mentre venivano mandati ad opporsi ai loro compagni operai coinvolti nello sciopero generale. Anche questa volta, salvo che in Ticino, i padroni del vapore hanno ottenuto che in tutto il paese i cantieri e gran parte delle fabbriche rimanessero aperti. Per Blocher come per Fulvio Pelli, “si è chiuso troppo e si è riaperto troppo adagio”. Tutto ciò ci rende un po’ pessimisti sul futuro, anche se questo disastro dovrebbe aver fatto capire a tutti che sarebbe ora di cambiare completamente strada.
In queste settimane molti maîtres à penser hanno sostenuto che non si tornerà alla normalità di prima, che il mondo cambierà. Ed i media, soprattutto all’estero, sono pieni di appelli di scienziati e personalità della cultura ad una riconversione ecologica, che includa anche una lotta senza frontiere alla disuguaglianza sociale. Non è però escluso che la situazione potrebbe cambiare anche in peggio.
Mai come ora la famosa previsione di Rosa Luxemburg, “socialismo o barbarie”, ci è sembrata più azzeccata. Anche perché un semplice ritorno alla situazione di prima non potrebbe che rappresentare una lenta discesa verso la barbarie. Le esternazioni dei Blocher e dei Sawiris, le richieste demenziali dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (meno diritti per i lavoratori, prolungamento degli orari di lavoro e così via), la decisione del Parlamento di permettere la distribuzione di dividendi anche alle industrie che fruiscono del lavoro ridotto, la resilienza delle borse grazie all’enorme liquidità di montagne di miliardi buttati nel sistema e di cui approfittano soprattutto le banche, la speculazione finanziaria e i grandi monopoli: tutti indizi che ci fanno temere il peggio. Saremmo contenti di poterci sbagliare. L’unica nota positiva per intanto è il grande fiorire, soprattutto nelle grandi città europee, ma parzialmente anche da noi, di movimenti di solidarietà di un nuovo tipo, gestiti spesso da giovani provenienti da movimenti sociali alternativi. Forse questa è la via migliore per iniziare a costruire una società veramente umana, che metta al suo centro quelle attività essenziali che garantiscono un’esistenza degna per tutte e per tutti.
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