Più mascherine, meno caccia militari

di Fabio Dozio

 

Le case per anziani sono un luogo delicato. Molto delicato. Sappiamo tutti, anche se non ci piace, che si tratta dell’ultima dimora per la quarta età. Una pandemia, causata da un virus sconosciuto, ha colpito i vecchi in misura maggiore. Quasi la metà dei decessi a causa del Covid-19 in Ticino sono avvenuti nelle case di riposo.

“Secondo le stime che arrivano dai Paesi europei la metà delle persone che sono morte di Covid-19 era residente in case di cura. È una tragedia inimmaginabile” – ha detto Hans Kluge, direttore dell’OMS Europa – “C’è un urgente e immediato bisogno di ripensare il modo in cui operano le case di cura oggi e nei mesi a venire: le persone compassionevoli e dedicate che lavorano in quelle strutture, spesso sovraccaricate di lavoro, sotto pagate e prive di protezione adeguata, sono gli eroi di questa pandemia”.

 

Osservazioni che valgono anche per il Ticino: in particolare per quanto riguarda il sovraccarico di lavoro e gli stipendi.

 

Il fatto che la pandemia abbia colpito particolarmente nelle case per anziani ha due spiegazioni: una, evidente, la fragilità dei grandi vecchi, che spesso convivono con altre malattie. La seconda va ricondotta a quanto afferma il rappresentante dell’OMS: “ripensare il modo in cui operano le case di cura”. Può essere utile rivedere due inchieste che chi scrive, assieme al collega e amico Vito Robbiani, ha realizzato quattro e cinque anni fa per la trasmissione Falò della RSI. La prima denunciava la situazione nella casa per anziani di Balerna, in cui alcuni operatori erano stati denunciati per maltrattamenti dai famigliari di ospiti dell’istituto. Il processo di appello contro due operatori si è concluso solo pochi mesi fa, con una condanna per coazione. La seconda proponeva una serie di testimonianze di famigliari e operatori sanitari che criticavano le condizioni di lavoro e la mancanza di trasparenza negli istituti.

 

Il maltrattamento all’interno delle case è una realtà, spesso offuscata da atteggiamenti di omertà di chi vi lavora, dei responsabili e anche delle istituzioni. Si tratta della “maltraitance ordinaire” come viene definita, per esempio, da uno studio della SUPSI: un maltrattamento – afferma una delle ricercatrici – “non clamoroso, che si insinua in modo impercettibile”. Le zone d’ombra, le situazioni a rischio, gli operatori stanchi e stressati, i congiunti che non vedono o minimizzano: sono le componenti di una realtà che può diventare pericolosa. Va detto che lavorare con i grandi vecchi è difficile, richiede grande professionalità e sensibilità: gli anziani non sono sempre dolci e sereni, possono essere irascibili e aggressivi e l’assistente di cura deve essere in grado di gestire anche questo stato di cose. Per correggere gli errori è fondamentale offrire il massimo di trasparenza, all’interno e all’esterno.

 

La maggioranza di chi opera negli istituti di cura è professionalmente ineccepibile, ma lo stress, la precarietà di certi ruoli e la carenza di personale possono creare situazioni che un virus subdolo può sfruttare per uccidere.

 

Le trasmissioni citate avevano messo in luce che la vigilanza sulle case per anziani, affidata all’Ufficio del medico cantonale, è praticamente inesistente. E ancora, che accedere alla Commissione di vigilanza sanitaria, organo preposto alla raccolta di eventuali critiche contro gli istituti di cura, ospedali compresi, è un’operazione eroica. Una figlia che denunciava un maltrattamento del genitore ha avuto una risposta evasiva della Commissione dopo tre anni di missive e grazie al fatto che si è presentata di persona negli uffici di Bellinzona.

Pro Senectute ha avuto per anni uno sportello di ascolto dedicato al maltrattamento degli anziani. Ora è stato addolcito con “Servizio promozione qualità di vita”, il cui obiettivo rimane “diminuire il numero dei maltrattamenti nei confronti degli anziani, diffondere una politica rivolta al buon trattamento e far conoscere il fenomeno”.

 

La pandemia va dunque inquadrata in questo contesto. Un ambiente difficile da gestire, dove la professionalità del direttore assume un’importanza straordinaria e si riflette sulla qualità complessiva dell’istituto.

 

Giustificando i decessi nelle case di riposo, i direttori hanno sempre dichiarato di aver rispettato le direttive del medico cantonale. In due lettere, del 13 e del 25 marzo, il medico e il farmacista cantonali hanno inviato alcune “Specifiche in merito alla gestione di casi Covid-19 e sull’uso di mascherine”. “Affinché vi sia un’elevata probabilità di diagnosi clinica Covid-19 positiva – si legge – il collaboratore deve presentare più sintomi tra quelli elencati nella Info med nr. 6 e almeno tosse e/o febbre di o più 38.0 gradi. In caso di infezione accertata da Covid-19, il collaboratore rientrerà dopo 48 ore dalla cessazione dei sintomi e almeno dieci giorni dopo l’inizio degli stessi. Lavorerà al rientro per 4 giorni con la mascherina chirurgica (una per turno). Gli operatori sanitari esposti a casi confermati positivi di Covid-19 (contatto professionale o privato) e che erano senza protezione adeguata al momento del contatto con un caso accertato possono continuare a lavorare utilizzando sempre una mascherina chirurgica e applicando rigorosamente le misure di igiene. Nei contatti ravvicinati con persone senza sintomi respiratori e non appartenenti ai gruppi vulnerabili, il personale sanitario non indossa nessuna mascherina”.

 

Febbre sopra i 38: non si tratta di un’asticella troppo elevata per capire se qualcuno è affetto da Covid-19? E soprattutto: un uso generalizzato delle mascherine, non avrebbe protetto gli anziani da possibili contagi? Provvisti per tempo di mascherine gli anziani sarebbero stati più fortunati! Nelle prossime settimane, forse, si farà luce su eventuali responsabilità nella gestione della pandemia negli istituti per anziani. Un aspetto colpisce: si è puntata l’attenzione contro gli ultrasessantacinquenni, “in letargo!”, ma si è sottovalutata la fragilità degli ultraottantenni.

 

Concludiamo con una proposta concreta. Lo scorso dicembre il Parlamento federale ha accettato di spendere 6 miliardi di franchi per l’acquisto dei nuovi caccia da guerra. È già stato annunciato un referendum contro questa spesa. Dopo la pandemia, un evento catastrofico che ha sconvolto il Paese, lo stesso Parlamento potrebbe ravvedersi e pensare di investire questi miliardi nella sanità. O, altrimenti, se si andrà al voto, c’è da immaginare che il popolo sia abbastanza intelligente per capire che è più importante investire nelle cure che nelle armi. E non si dica che sono due cose diverse, no: la difesa nazionale passa per la protezione della popolazione. Quindi questi sei miliardi di franchi vadano al mondo della sanità, della prevenzione e della cura: alle case per anziani, agli ospedali, agli infermieri e alle infermiere, a tutti gli operatori.

 

Più mascherine, meno caccia militari! Questo è il compito di una Nazione presa alla sprovvista da una pandemia annunciata!

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