Di peste e di coronavirus

di Franco Cavalli

 

Non so quanto venga ancora letto oggi nelle nostre scuole “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. 

Già ai miei tempi lo trovavamo un po’ noioso, anche se forse la pensavamo così perché venivamo obbligati a leggerlo e pochi dei nostri professori riuscivano a creare in noi un minimo di entusiasmo (non per niente ho imparato ad apprezzare questo capolavoro solo molto più tardi).

 

Ha quindi fatto molto bene Domenico Squillace, direttore del Liceo Alessandro Volta di Milano, ad invitare i suoi allievi a rileggersi – nel pieno dell’epidemia da coronavirus – i capitoli nei quali Manzoni descrive la peste che nel 1630 causò la morte di almeno 150’000 persone a Milano. Come ben riassunto da Squillace, in quei capitoli si trova tutto quello che si è vissuto in Lombardia ad inizio epidemia: “il sospetto che gli stranieri sono pericolosi, i litigi tra le autorità, la ricerca disperata del paziente “0”, il disprezzo degli esperti, la caccia agli untori, la corsa ad accaparrarsi gli alimenti, le bufale più fantasiose, le proposte di rimedi assurdi, e finalmente lo stato di eccezione nel sistema sanitario”.

 

Certo, peste e Covid-19 non sono paragonabili. Questo non solo perché la “morte nera”, apparsa per la prima volta in Italia nel 1347, in poco più di cinque anni uccise in tutta Europa 25 milioni di persone, cioè un terzo della popolazione europea di allora. Neanche il più catastrofista degli epidemiologi ha mai previsto uno scenario simile per l’attuale pandemia. Inoltre il Covid-19 non è un batterio come l’agente patogeno della peste, bensì un virus, sul quale sapremo molto presto tutto quello che c’è da sapere e contro il quale disporremo in tempi relativamente brevi di un vaccino. L’agente patogeno della peste, invece, è conosciuto solo dal 1894, quando venne scoperto dal batteriologo svizzero Alexander Yersin – e da allora porta il suo nome, “Yersinia pestis”.

 

La storia della peste – scoppiata per l’ultima volta in Europa, a Messina, nel 1743 – è in gran parte dimenticata ma estremamente interessante, anche perché molti degli insegnamenti che allora ne furono tratti rimangono ancora oggi i cardini principali delle regole con cui, in assenza di un trattamento farmacologico sicuro, si cerca di combattere le pandemie. Queste regole furono quasi tutte fissate in Italia, che (altra similitudine con la pandemia attuale!) fu quasi sempre all’origine delle epidemie, soprattutto perché le repubbliche marinare erano il polo europeo con più contatti commerciali con l’Oriente. E come si sa, la peste veniva trasportata soprattutto dai pidocchi dei ratti, la prima volta forse dalla Cina (!). Ma le regole sul come combattere la peste nacquero in Italia anche perché in quel periodo storico le repubbliche cittadine italiane rappresentavano lo stadio più evoluto di cooperazione tra le autorità politiche e quella che oggi chiameremmo la società civile.

 

Lunga è la lista delle misure che furono allora inventate in Italia e che in buona parte usiamo ancora oggi: basti pensare alla quarantena (corrispondente tra l’altro al periodo che Mosè avrebbe passato sulla montagna), che era servito da misura principale per l’isolamento. Spesso coloro che erano sospettati di essere ammalati venivano isolati: si pensi alle due isole del Lazzaretto nuovo e del Lazzaretto vecchio di Venezia, usate a questo scopo. Ma tutta l’Italia era costellata da torri, che servivano soprattutto da posto di blocco per coloro che sembravano non essere in buona salute. Le varie città poi si scambiavano regolarmente missive sulla situazione sanitaria: in tempi normali ogni due-tre settimane, durante le epidemie anche due o tre volte alla settimana. In molte di queste città-stato venivano dislocati addirittura degli ambasciatori, responsabili quasi unicamente di far circolare le informazioni sanitarie: struttura primitiva che ricorda quella odierna dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Famoso è rimasto poi il consiglio che diede Gian Filippo Ingrassia, protomedico del Regno di Sicilia allo scoppio della peste a Palermo nel 1575, su come fermarla: “oro, fuoco e forca”. Il senso di quella formula è evidente e può essere tradotta in termini attuali: risorse economiche, risanamento sanitario, normative stringenti che obblighino all’osservanza delle regole. Sono ricette a cui ci si appella ancora oggi, inclusa “la forca” che si sente invocare come estremo rimedio all’indisciplina sociale.

 

A questo proposito vale però la pena di guardare più da vicino certe esperienze storiche legate alla peste. Ritorniamo allora a quella manzoniana (1630), che a Milano fu affrontata con norme applicate con cieca rigidità: i presunti untori furono torturati e giustiziati, mentre le grandi processioni indette dal Cardinale – contro il parere di molti medici – esacerbarono il contagio (come il nostro Rabadan o la partita di Champions dell’Atalanta giocata a Milano?). In quella stessa epidemia, a Firenze le Confraternite svolsero un ruolo prezioso, comparabile a quello della nostra società civile. Nella capitale toscana i provvedimenti di sanità furono oggetto di controllo, ma senza usare la forca: i presunti untori furono solo due, poi scagionati ed anche risarciti per l’ingiusta detenzione. Ci fu una sola processione permessa, dove il pubblico assistette al passaggio dell’immagine della Madonna a 100 metri di distanza. Da quanto sappiamo a Firenze l’epidemia fu molto più contenuta e ci furono molti meno morti che non nella capitale lombarda. A riprova che la storia della peste ci insegna ancora oggi diverse lezioni importanti: dimenticarle vuol dire pagare un caro prezzo.

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