di Raffaello Cortina
Riflessioni a partire da Pierre-André Taguieff
Nel linguaggio contemporaneo il termine razza sta diventando obsoleto mentre quello di razzismo viene usato in un numero sterminato di contesti come sinonimo di espulsione, rigetto, ostilità, odio…
Occorrerebbe pertanto cercare di individuare alcuni criteri che ci permettano di comprendere meglio questo fenomeno che (solo) apparentemente sembriamo conoscere così bene.
Per prima cosa occorre dire che il razzismo non si presenta mai allo stato puro. Non esiste il razzismo “in astratto”. Il razzismo che esiste, esiste in una grande varietà di forme diverse, sempre implicite nel nazionalismo, nell’imperialismo (coloniale e non), nell’etnicismo, nel cosiddetto “darwinismo sociale” e in molti altri fenomeni.
Se ad esempio consideriamo ciò che sta avvenendo in questi giorni negli Stati Uniti osserviamo che il razzismo ha caratteristiche del tutto peculiari a quella situazione storico-sociale: marcate disuguaglianze economiche e sociali, una certa distribuzione del potere tra i ceti dominanti e le minoranze (in particolare quella nera), una spaventosa concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi… Questi elementi sono poi legati a doppio filo ad una lunga storia di segregazione contro la popolazione nera e più in generale contro le minoranze.
Negli USA (e non solo) il razzismo è un dispositivo di dominio e di controllo: dividere le persone in razze in reciproca lotta per sottomettere tutti al potere del capitale.
Un primo elemento dal quale partire è che il razzismo non può essere semplicemente ridotto ad etnocentrismo
“Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio tecnico va sotto il nome di etnocentrismo. Ad esso corrispondono dei costumi popolari che sono destinati a giustificare sia le relazioni all’interno del gruppo sia quelle del gruppo con l’esterno. Ogni gruppo esercita la propria fierezza e vanità, dà sfoggio della sua superiorità, esalta le proprie divinità e considera con disprezzo gli stranieri (outsiders). Ogni gruppo pensa che i propri costumi (folkways) siano gli unici ad essere giusti, e prova soltanto disprezzo per quelli degli altri gruppi, quando vi presta attenzione” [1]
Per questo non poteva essere considerato razzista il gesto di quei neri che lasciavano crescere i propri capelli costruendo un’immagine specifica e distinta di sé della quale andare fieri e da contrapporre a chi li voleva ammansire. La difesa della propria “etnicità”, in certi casi, è una forma di resistenza contro l’omologazione “colonialista”.
Il razzismo non è neppure un semplice pregiudizio, qualcosa da eradicare attraverso una paziente opera di convincimento, ma un fenomeno complesso che può essere compreso solo se collocato nella sua dimensione storica e sociale.
Dal razzismo biologico al razzismo culturale
Un elemento da tenere presente è che il razzismo come fenomeno storico non coincide con l’elaborazione della teoria delle razze che si colloca grosso modo tra la seconda metà del ‘800 e la prima metà del ‘900 sulla base di un discorso di tipo “biologico”, fondato su caratteri somatici (bianchi vs neri, per fare un esempio) sui quali elaborare categorie umane in relazione di disuguaglianza (liberi vs schiavi oppure dominanti vs sottomessi).
Con la fine del nazismo e della guerra il razzismo non sparisce, ma “cambia pelle” e diventa prevalentemente razzismo “culturale” (bisogna tra l’altro ricordare che uno degli elementi di scontro tra il “Führer de facto” – Adolf Hiler – e il “Führer in pectore” – Martin Heidegger – risiedeva proprio sul tipo di razzismo da essi propugnato – biologico per Hitler, culturale per Heidegger). E abbbiamo detto “prevalentemente” perché il razzismo biologico non scompare ma permane ai livelli medio-bassi della scala socio-culturale come facile “legittimazione” di una presunzione di superiorità.
Il “razzismo culturale” fonda le proprie argomentazioni su concetti elaborati a partire, appunto, da tratti culturali (ad esempio religiosi – cristiani vs islamici – o nazionali – italiani vs tedeschi –).
Taguieff cerca di costruire un proprio modello interpretativo basato su alcuni elementi.
Essenzializzazione
Secondo Taguieff nel razzismo un individuo viene ridotto a rappresentante del gruppo (sociale, culturale, religioso) di appartenenza. Scompare la sua individualità e le differenze con gli altri gruppi vengono considerate irriducibili.
Taguieff chiama questo processo “essenzializzazione”.
“Innanzitutto una categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o della sua comunità d’origine elevata a comunità di natura o d’essenza, fissa e insormontabile. […] L’appartenenza non viene pensata solamente come se potesse predisporre il pensiero, come uno stile e come un insieme di contenuti ma anche come una normativa. […] Il che porta a disindividualizzare l’individuo. La conseguenza decisiva di questa essenzializzazione è l’assolutizzazione della differenza tra gruppi umani distinti o percepiti come reciprocamente irriducibili.” [2]
Stigmatizzazione
Il “nero” è “in essenza” qualcosa che lo distingue da qualsiasi altro individuo “non nero”. Una volta che il “nero” è stato essenzializzato esso è divenuto qualcosa d’altro, una “diversità”. Si tratterà poi di costruire su tale diversità una caratterizzazione in senso negativo (evidentemente essenzializzare i “neri” affermando solo che si tratta di “persone con la pelle nera” non basta; si dovrà costruire sull’“essere neri” un qualche stigma sociale e culturale).
Una volta essenzializzati gli individui vengono infatti sottoposti a processi di esclusione simbolica con la creazione di un numero di stereotipi negativi.
Ad esempio li marchia come “impuri” e in grado di “rendere impuri gli altri”, attribuisce loro una “natura pericolosa” da cui deriva la paura del contatto e della mescolanza nonché la necessità di difendersi. Taguieff chiama questi processi “stigmatizzazione”.
“In secondo luogo una stigmatizzazione, ossia un’esclusione simbolica degli individui categorizzati in tal modo che comporta la creazione di un certo numero di stereotipi negativi. […]
Il principale modo di stigmatizzare consiste nell’attribuire a questo o a quel gruppo “estraneo” una natura “pericolosa” per il proprio gruppo o per il gruppo di appartenenza” [3]
Barbarizzazione
Infine si giunge all’idea che alcuni gruppi di individui non sono civilizzabili o assimilabili e questo genera la totale disumanizzazione della categoria presa di mira. Secondo Taguieff la “teoria delle razze” è solo la traduzione storica di questa impossibilità di assimilazione che lui chiama “barbarizzazione”.
“In terzo luogo, la convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili (e, dunque, come presupposto, che non siano civilizzate), che siano imperfettibili, non educabili, inconvertibili, inassimilabili: altrettanti modi di messa al bando che realizzano una parziale o totale disumanizzazione delle categorie prese di mira. […]
Il barbaro non è l’indifferente in quanto tale ma colui che mischia le distinzioni più significative, colui che incarna l’indifferenziazione minacciosa, la differenza fuori sistema” [4]
Del resto, i greci che usavano la stessa parola per “pensare” e per “parlare” (logos) chiamavano “barbari” coloro che non sapevano parlare la lingua greca e che, di conseguenza, non erano neppure capaci di pensare, come i greci.
A questo punto l’inferiorità è pensata come un destino, è un’anomalia, è pericolosa e da essa bisogna difendersi; il che può condurre a persecuzioni o pratiche di sterminio.
Razzismo e antirazzismo
I movimenti anti-razzisti sono ovviamente una conseguenza del razzismo. Nascono come reazione al razzismo biologico e alla teoria delle razze in Europa. Dal secondo dopoguerra si afferma la consapevolezza che dal punto di vista biologico le razze non esistono e che le teorie elaborate a partire dalla metà dell’800 sono prive di qualsiasi fondamento scientifico. Pertanto, chiunque si dichiari o mostri di essere razzista deve essere considerato semplicemente un ignorante che crede ancora a teorie del tutto falsificate.
D’altra parte, poiché il razzismo è passato da essere prevalentemente “biologico” ad essere prevalentemente “culturale”, allora anche l’antifascismo deve ripensare criticamente sé stesso. Quello che Taguieff intende dire è praticamente nessuno, oggi, si presenta apertamente come razzista proponendo una gerarchia di razze con al vertice la razza bianca. Non si usano più parole come giudei, ebrei, semiti… ma si usano parole come “mondialismo” o “cosmopolitismo” per definirsi come “identità” (da scagliare contro le altre). Non ci si dichiara “razza superiore” ma si rivendica il diritto di difendere ad ogni costo la propria “identità” contro un processo che viene denunciato come di “omologazione”, di “meticciamento”, di “sradicamento”…
“Ci troviamo, dunque, di fronte al problema del razzismo implicito. Esso non si offre a una facile denuncia nella forma ben riconoscibile di comportamenti o di tesi condannabili per legge. […]
Dinnanzi a questa consistente metamorfosi del razzismo la cui causa principale è il passaggio al simbolico – che è il modo di aggirare le legislazioni antirazziste e di evitare di essere socialmente identificati come “razzisti” – si pone il problema dei limiti della repressione legale del razzismo” [5]
Non basta sostenere che la teoria delle razze sia priva di qualsiasi scientificità o che incarna un passato ormai tramontato perché questo non riesce a spiegare la presenza del nuovo razzismo.
C’è un paradosso molto particolare che conduce alcune persone in buona fede a produrre atteggiamenti razzisti verso i razzisti o verso coloro che non vengono considerati abbastanza anti-razzisti (un facile esempio potrebbe essere quello della Nazione dell’Islam — l’organizzazione a cui era appartenuto anche Malcolm X – che propugnava la segregazione razziale in modo speculare ai sostenitori del suprematismo bianco).
Potremmo chiamarlo il “paradosso dell’anti-razzismo razzista” che conduce allo stesso identico meccanismo di “costruzione delle razze”.
“L’antirazzismo corre il rischio non solo di usare gli stessi strumenti ideologici e culturali del proprio avversario, ma anche di riprodurre gli stessi meccanismi di essenzializzazione, stigmatizzazione e barbarizzazione che caratterizzano il razzismo stesso […] l’antirazzismo finisce per costruire un nemico assoluto e astratto – il «razzista» […]” [6]
I rischi sono diversi: vedere razzisti ovunque (con il risultato paradossale che se il razzismo è ovunque allora non è in nessun luogo specifico); oppure non saper vedere livelli diversi di pregiudizio.
Soprattutto, e ancora più importante, impedisce di saper cogliere le radici materiali del razzismo considerandolo più l’espressione di una “cattiveria umana” da redimere che non il prodotto storico di società classiste da distruggere.
Note
[1] Taguieff, Il razzismo, pag 10
[2] Ibidem, pag. 64
[3] Ibidem, pag. 64-5
[4] Ibidem, pag. 66-7
[5] Ibidem, pag. 58
[6] Cfr. Fabio Dei, Antropologia culturale, Il Mulino
Dalla rivista “Antiper. Critica rivoluzionaria dell’esistente”
antiperantiper.org
Riflessioni a partire da Pierre-André Taguieff, Le racisme | Trad. it. di F. Sossi