La pandemia in Cina: parecchi successi, qualche problema

di Simone Pieranni, corrispondente da Pechino

 

Sembra un secolo fa, ma è bene ricordare da dove e quando è partita l’epidemia di Covid-19 che si è ormai diffusa in ogni parte del mondo: a inizio dicembre 2019 alcuni medici dell’ospedale di Wuhan, metropoli cinese di 11 milioni di abitanti, si trovano di fronte a quello che definiscono fin da subito un ceppo anomalo di polmonite.

L’ipotesi del personale ospedaliero – in quei giorni – è quella di essere di nuovo di fronte alla SARS, epidemia che scosse la Cina tra il 2002 e il 2003. La preoccupazione è tale che la Cina, il 31 dicembre, comunica ufficialmente all’Organizzazione mondiale della sanità l’esistenza di questo ceppo. Poi via via: il 1° gennaio 2020, le autorità cinesi stabiliscono la chiusura del mercato ittico di Wuhan, luogo dal quale si sarebbe propagato il virus attraverso uno spillover, un salto di specie, avvenuto da pipistrello o da pangolini, animali che in Cina più che mangiati vengono utilizzati per la medicina tradizionale. Il 18 gennaio l’amministrazione di Wuhan organizza un banchetto pubblico al quale partecipano più di 40 mila famiglie, con lo scopo di entrare nel Guinness dei primati per il maggior numero di piatti serviti a un singolo evento. Il 20 gennaio viene ammessa ufficialmente la trasmissione del virus da uomo ad uomo. Il 22 gennaio Wuhan e altre diciassette città vengono messe in quarantena. Tra il 23 e il 25 gennaio, 30 amministrazioni locali su 31 (tranne il Tibet) dichiarano il livello massimo di allerta sanitaria. Da allora la Cina ha fronteggiato il Covid-19 in modo energico, arrivando anche a zero contagi in alcune giornate di aprile 2020.

 

Prima di entrare nel merito di quanto la Cina ha fatto, è necessario concentrarsi su quel lasso di tempo compreso tra il riconoscimento del ceppo anomalo di polmonite e la quarantena stabilita a Wuhan; si tratta di un periodo che potrebbe aver causato la diffusione dell’epidemia in modo decisivo.

 

Va subito sottolineato però che il ritardo cinese dipende da fattori che vanno al di là della volontà politica di nascondere o occultare i fatti. Senza fermarsi all’annosa questione della censura, che c’entra ben poco in tutta questa vicenda, sono stati messi in evidenza i punti “deboli” della governance cinese, già registrati in occasione di altre situazioni di emergenza a livello sanitario. La relazione tra centro e periferia, per un territorio così vasto come la Cina, è da sempre, fin dai tempi imperiali, una lente attraverso la quale osservare il sistema decisionale politico cinese. Le problematiche legate alla trasmissione e all’effettiva messa in pratica di direttive dal centro nelle zone più periferiche è sempre stato un problema in Cina: da un lato in luoghi molto distanti dalle autorità centrali si è spesso assistito alla nascita di gruppi di potere poco propensi a seguire pedissequamente le direttive provenienti dal centro; dall’altro il controllo totale implicato dal sistema top-down cinese ha provocato delle difficoltà da parte dei funzionari locali a segnalare problematiche capaci di mettere a rischio quanto è più prezioso per la leadership politica cinese, ovvero la stabilità. Il caso del coronavirus rappresenta in pieno questa tipologia di problemi tipici della Cina.

 

Il sindaco di Wuhan, in un’intervista davvero peculiare a una televisione cinese, ha sostanzialmente detto che il suo mancato allarme è dipeso dalla legge cinese (e non dalla censura, come erroneamente sostenuto da qualche analista) che prevede per questioni legate a epidemie o gravi emergenze sanitarie che sia il Consiglio di Stato (ovvero il governo, e non a caso a Wuhan è andato Li Keqiang, numero due della leadership e «premier» cinese) a dover ufficializzare l’esistenza del problema. Naturalmente il sindaco ha ammesso il suo di errore, ovvero quello di avere sottostimato l’emergenza, almeno all’inizio. Una volta messa in moto, la macchina politico-organizzativa ha subito cominciato a risolvere alcuni problemi. Xi Jinping si è espresso per due volte in modo determinato, senza fronzoli. Sono state immediatamente attivate procedure che solo la Cina può permettersi: quarantena ferrea, immediato arrivo di soldati e altri medici per fronteggiare l’emergenza, controllo totale delle informazioni on-line per evitare rumors e bufale capaci di creare il panico e incentivare la comunità scientifica a procedere spedita.

 

Le ragioni che hanno fatto sì che la risposta cinese abbia funzionato sono molte e non possono essere addotte alla sola quarantena. Le caratteristiche cinesi permettono infatti di contrastare momenti di emergenza facendo leva su sistemi valoriali molto diversi da quelli occidentali. Una delle caratteristiche principali del “modello cinese” in risposta al Covid è stata senza dubbio la “mobilitazione di massa” che il Partito comunista è riuscito a mettere in piedi. Nella storia della Cina dal 1949 a oggi, il PCC ha più volte “mobilitato” organi dello stato, amministrazioni e popolazione, per ottimizzare le risposte in casi di emergenza e crisi improvvise, quei “cigni neri” (gli eventi inaspettati) da cui aveva messo in allerta Xi Jinping già nel 2019. La risposta all’epidemia di SARS del 2003 e il terremoto del Sichuan nel maggio del 2008 sono esempi di quanto il PCC intenda per “mobilitazione”, considerata fondamentale per quello che viene definito il “successo nella ricostruzione”. Una crisi, un’emergenza, possono creare dei meccanismi spinti dall’alto in grado di riporre il PCC al centro della scena sociale in Cina, quale motore ed equilibratore di situazioni complicate anche nel tentativo di fare dimenticare le iniziali manchevolezze della macchina politico-amministrativa.

 

La mobilitazione (dongyuan) è infatti un concetto fondamentale nella politica contemporanea cinese. Come ricorda Li Zhiyu in Afterlives of Chinese Communism (Verso, 2019) il termine “indica l’uso di un sistema ideologico da parte di un partito o di un sistema politico per incoraggiare o costringere i membri della società a partecipare a determinati obiettivi politici, economici o sociali, al fine di raggiungere risultati e un corretto dispiegamento di risorse e persone su larga scala”. È quanto è accaduto con il Coronavirus. Rilevamento di temperatura ovunque (e successivi “codici salute” inviati sul dispositivo cellulare per regolamentare lo spostamento dei cittadini sulla base della loro condizione di salute), specie nelle entrate delle stazioni ferroviarie e della metropolitana. Pulizia costante dei mezzi pubblici, laddove non ne fosse stata già bloccata la circolazione. Ogni città ha fatto il suo: in alcuni posti si sono ridotti gli orari di lavoro dei supermercati o dei centri commerciali per evitare rischi contagio, in altri – specie nei villaggi – tutti hanno cercato di aiutare come hanno potuto i medici incaricati di andare di casa in casa a rilevare febbre e segnalare eventuali contagi. Con il blocco dei mezzi molti privati si sono messi a disposizione di ospedali per trasportare materiali da un luogo all’altro, dedicando l’intera giornata a questo. La Cina ha ugualmente attivato il suo comparto tecnologico: robot, intelligenza artificiale, assistenti vocali hanno sostenuto l’immane sforzo della sanità nazionale.

 

Questo tema, in particolare, riveste grande importanza per diversi motivi: in primo luogo testimonia l’avanzamento cinese nel comparto tecnologico, in secondo luogo indica tutta una serie di possibilità che in questo periodo di pandemia sembrano interessare anche governi occidentali. Quasi tutti i media internazionali hanno sottolineato l’utilizzo massiccio da parte di Pechino dei dati provenienti dal traffico e dalle attività delle persone sui cellulari. Si tratta di elementi che sono già quotidiani in Cina e che in alcuni casi hanno aiutato le più generali operazioni di contenimento del virus in modo quasi naturale: si pensi, ad esempio, che la Cina è da tempo una società cashless, specie nelle grandi metropoli. Si paga tutto con il proprio smartphone o con la propria faccia attraverso sistemi di riconoscimento facciale: questo ha permesso una distanza fisica, ad esempio, più complicata nel caso di pagamenti con banconote.

 

Ma si tratta di piccole cose rispetto al più generale orientamento cinese che ha trovato nella fase due una sua ulteriore realizzazione, attraverso l’uso dei cosiddetti “codici salute”. In pratica ogni cinese a seconda del suo stato di salute riceve un colore che gli permette o meno di muoversi liberamente nelle proprie città. L’app è interna ad Alipay di Alibaba e WeChat di Tencent, presenti sullo smartphone di quasi tutti i cinesi. Come spiegato dai siti cinesi specializzati sulla questione dei crediti sociali, “Per viaggiare, le persone dovranno compilare un rapido sondaggio ‘sanitario’. Successivamente, il software consegnerà loro un codice sanitario colorato (verde, giallo o rosso) che determina se potranno uscire di casa e dove possono andare. L’iniziativa è stata presentata per la prima volta da funzionari della città orientale di Hangzhou, ma da allora altri hanno seguito l’esempio. A partire dal 25 febbraio il programma veniva utilizzato in 200 città cinesi”. Oggi sono già molte di più. I codici devono essere mostrati in molti luoghi della città, comprese stazioni dei treni e delle metropolitane.

 

Il “codice salute” ha finito, però, per inserirsi in un altro sistema in uso da tempo in Cina, ovvero quello dei crediti sociali, un sistema di rating dei cittadini sulla base della loro affidabilità. Lo scopo finale del Partito comunista è infatti la creazione di un unico gigantesco database nazionale nel quale ogni cittadino e ogni azienda avranno un punteggio sociale determinato dal proprio comportamento in termini di affidabilità economica (pagamento di multe, restituzioni di prestiti), penale, amministrativa (dipendente anche da comportamenti di natura civica come ad esempio suonare il clacson, effettuare una buona e diligente raccolta differenziata, ecc). Se una persona sarà considerata affidabile avrà dei vantaggi, altrimenti avrà degli svantaggi: riportando tutto questo a noi, potremmo dire che attraverso sistemi di rating e meccanismi di gamificazione Pechino sta costruendo un proprio sistema in grado di stabilire nuovi concetti di cittadinanza. Un progetto che oggi sembra nei pensieri dei politici cinesi, ma anche di quelli occidentali.

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