Coronavirus in Lombardia: una tragedia con precise responsabilità

di Vittorio Agnoletto

 

C’è stata una “finestra di opportunità” – questo il termine utilizzato dall’Oms – tra la scoperta del virus in Cina e la sua comparsa in Occidente: un’opportunità formidabile per organizzare al meglio la risposta evitando di farci trovare impreparati. Ma non è stato fatto nulla. Ed è stata una tragedia.

La sanità lombarda è presentata come “l’eccellenza”, secondo la narrazione ufficiale costruita dalla destra che da decenni governa la regione. Ma l’emergenza Covid-19 ha reso evidente agli occhi di tutto il mondo il totale fallimento del modello lombardo. I dati non ammettono replica: al 1° maggio 2020, la Lombardia totalizza da sola circa il 50% degli oltre 28.000 decessi contabilizzati a livello nazionale secondo i dati, ampiamente sottostimati, forniti dalla Protezione civile. Senza dimenticare che 89 dei 150 medici deceduti in Italia vivevano in Lombardia.

 

Tre sono le ragioni di questa disfatta.

 

La prima è la forte presenza del privato in un servizio sanitario misto, nel quale il privato accreditato riceve quasi il 40% della spesa sanitaria corrente. Le strutture sanitarie private sono completamente disinteressate alla prevenzione, che anzi sottrae loro clienti, e si focalizzano sui settori maggiormente remunerativi come i reparti per i malti cronici, la cardiologia, l’alta chirurgia anziché ai Pronto Soccorsi e ai dipartimenti d’emergenza che richiedono un forte impegno in personale e attrezzature con una limitata possibilità di profitto.

 

La seconda è la gestione del servizio sanitario pubblico, che ha introiettato i medesimi valori e le stesse priorità delle strutture private con l’aggravante di una catena di comando basata sulla fedeltà di partito. È stata ridotta ai minimi termini la medicina preventiva, cancellato qualunque impegno negli studi epidemiologici, quasi azzerati i servizi per la medicina del lavoro, umiliati e ignorati i medici di medicina generale del Servizio Sanitario Nazionale (che la destra considera un intralcio alla privatizzazione), dimezzati gli ambulatori territoriali e ridotti i posti letto negli ospedali pubblici per fare spazio all’apertura di nuove cliniche private nonostante la protesta dei cittadini.

 

La terza ed ultima è l’idea di sanità che guida il sistema, tutta concentrata solamente sulla cura, sui protocolli terapeutici e chirurgici di alta specializzazione, sulla cosiddetta medicina personalizzata, sulle ricerche sul genoma. Un’idea di sanità che purtroppo è indifferente alle infinite attese alle quali devono sottostare i propri cittadini per accedere alle cure formalmente loro garantite dallo Stato; disinteressata alla medicina preventiva e ai servizi territoriali, considerati strutture di una medicina di serie B.

A queste cause, ha fatto seguito una serie di decisioni di gestione disastrose. Considerato che già da diverse settimane si conoscevano le vie di trasmissione, non è accettabile che tra le persone contagiate dal paziente zero vi siano degli operatori sanitari che lavoravano nell’ospedale di Codogno il 21 febbraio. Né può essere considerato “normale” il contagio di pazienti già ricoverati per altri motivi nelle strutture ospedaliere. Sono chiare le linee guida dell’Oms sulle precauzioni universali, sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di protezione individuale da parte del personale sanitario, sulle modalità di accoglienza e di ricovero dei cittadini con patologie sospette. Ma nessuna indicazione e nessuna specifica formazione era stata fornita al personale sanitario.

 

Tardive sono state anche le indicazioni, rivolte a chi temeva di essere stato infettato, di non recarsi nei Pronto Soccorsi, né nello studio del proprio medico curante per evitare di trasformare quei luoghi di cura in luoghi di malattia. Quando hanno iniziato ad essere diffusi i numeri di telefono da contattare e le indicazioni di non recarsi al pronto soccorso, ormai “i buoi erano scappati”.

 

I medici di famiglia sono stati completamente abbandonati a sé stessi dalle Agenzie di Tutela della Salute (ATS), mentre in una condizione di enorme stress erano sommersi da ogni tipo di richiesta. Per settimane non sono state loro fornite nemmeno le mascherine; hanno dovuto cercarsele da soli spesso senza riuscire a trovarle. La tutela della salute degli operatori sanitari dovrebbe rappresentare un patrimonio sociale fondamentale della collettività per garantire assistenza e cura a tutti.

 

I dispositivi di protezione individuale (DPI) sono arrivati con grande ritardo anche in molte strutture ospedaliere e spesso sono stati distribuiti con criteri incomprensibili. In più occasioni i DPI non sono stati forniti ai lavoratori non dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale ma di cooperative alla quale erano stati esternalizzati alcuni servizi.

 

Nessuna autorità regionale ha ritenuto di obbligare le strutture sanitarie private non convenzionate a mettere a disposizione della collettività le proprie competenze e il proprio personale medico. Sono stati cancellati da parte delle strutture sanitarie pubbliche e private accreditate tutte le visite e gli esami già prenotati, talvolta anche con codice d’urgenza, relativi ad altri settori della medicina non coinvolti nella vicenda Coronavirus. Decine di migliaia di cittadini hanno dovuto rinunciare alle cure, mentre chi economicamente poteva si è rivolto alla sanità privata che sta traendo ulteriori guadagni da questa situazione.

 

I tamponi sono stati effettuati solo alle persone già gravemente sintomatiche arrivate in ospedale, senza nessuna strategia di contact tracing, rendendo così impossibile contenere la diffusione del virus; per i primi due mesi i tamponi non sono nemmeno stati realizzati al personale medico, neanche in presenza di un collega con Covid-19, con il risultato di aver favorito la diffusione dell’infezione tra il personale sanitario e i cittadini ricoverati.

 

Per cinque settimane non sono state attivate le Unità Speciali di Assistenza Domiciliari (USCA) in grado di assistere a domicilio i malati; alla fine di aprile, nel territorio di Milano e Lodi anziché le 65 USCA previste ne sono attive solo una decina e non dispongono della possibilità di eseguire i tamponi.

 

I medici curanti non sono stati forniti né di tamponi, né di saturimetri, né della possibilità di procurarsi l’ossigeno, e fino ad aprile inoltrato non potevano prescrivere i farmaci necessari ritenuti di pertinenza solo ospedaliera. Le disastrose condizioni della medicina territoriale hanno provocato un enorme impatto sulle strutture ospedaliere: in Lombardia nella prima fase sono stati ricoverati in ospedale il 50% di coloro che erano risultati positivi, contro il 25% del Veneto. Disastroso è stato l’impatto con un numero limitato di posti letto, conseguenza dei tagli alla spesa sanitaria dei decenni precedenti (in Italia nel 1981 vi erano 530.000 posti letto, ridotti a 230.000 circa nel 2017) e con un ancor più limitato numero di letti nei reparti d’emergenza.

 

Anche per la scarsezza del numero di macchinari disponibili, i medici hanno dovuto decidere chi curare e chi abbandonare al proprio destino; molti ultrasettantenni sono stati lasciati morire a casa o nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) senza aver mai raggiunto l’ospedale.

 

Il numero chiuso imposto a livello nazionale nelle facoltà di medicina e i tagli alle scuole di specialità hanno prodotto la mancanza di medici; sono arrivati ad aiutare la Lombardia medici da Cuba, Brasile, Cina, Romania e Albania.

 

Esaurita la capienza degli ospedali, non avendo attivato negli anni le strutture per le cure intermedie ed essendosi rifiutati di requisire le cliniche private, la regione Lombardia, con la delibera dell’8 marzo, ha chiesto alle RSA, dove risiedono le persone anziane in condizioni di fragilità, di accogliere, dietro lauto compenso, i malati di Covid dimessi dagli ospedali ma ancora in grado di trasmettere l’infezione. La tragedia che ne è conseguita è ormai conosciuta in tutto il mondo: una vera e propria strage con migliaia di anziani morti in queste strutture e i camion che trasportavano file infinite di bare. Ora è al lavoro la magistratura per individuare le responsabilità

 

Le negligenze e le responsabilità individuali hanno fatto da moltiplicatore ai limiti di un sistema sanitario concentrato solo sulla cura e sul profitto, che ha trasformato la salute in una merce, che ignora la prevenzione perché non produce guadagni per le lobby private del settore e che non coinvolge la popolazione nella tutela della propria salute individuale e collettiva.

 

La tragedia del Covid-19 ha reso evidente l’importanza di un servizio sanitario universale gratuito nell’accesso perché sostenuto da una fiscalità generale progressiva, fortemente incentrato sulla prevenzione, sulla medicina territoriale e di comunità. Ma non ha cancellato gli enormi interessi economici che ruotano attorno alla sanità lombarda e che dal disastro collettivo hanno tratto ulteriori profitti ai quali loro e i loro alleati politici non rinunceranno di certo. Dopo questa tragedia, ci aspetta un confronto molto duro.

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