La pandemia rinforza Netanyahu e il dispotismo

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente

 

Nei mesi scorsi, mentre mezzo mondo rallentava o fermava quasi del tutto ogni attività per contenere il coronavirus, i social network sono stati inondati da una piena di buoni propositi. 

«Ne usciremo migliori», «Non torneremo alla normalità perché è la normalità il problema», hanno scritto e detto in tanti esortando il genere umano a mettere fine alla devastazione dell’ambiente, allo sfruttamento delle risorse del pianeta, a guerre vecchie e nuove e allo scontro tra i popoli.

 

 

L’allentamento del lockdown avvenuto tra fine aprile e inizio maggio in molti Paesi ha riportato l’armata buonista con i piedi per terra: la contestata «normalità» regolerà ancora la vita in tutto il globo.

 

La pandemia non ha unito i popoli, al contrario sembra spingerli a chiudersi ancora di più nel guscio nazionalista. E il «nemico» è più nemico di prima, a maggior ragione ora che si dovranno fare i conti con le pesanti conseguenze economiche della diffusione del virus. Questo appare ancora più vero in Medio oriente dove in meglio, come auspicava qualcuno, non è cambiato proprio nulla. Governi e regimi, con il pretesto di tenere sotto controllo l’ordine pubblico in un periodo delicato, hanno approfittato, ad esempio, dell’emergenza sanitaria per limitare la libertà di stampa e incarcerare giornalisti. All’agenzia di stampa Reuters è stata sospesa per tre mesi la licenza per operare in Iraq perché ha pubblicato un servizio che, secondo le autorità locali, pur riportando informazioni riferite da medici e fonti ufficiali, conteneva «informazioni false». In Iran la task force governativa, incaricata di combattere la diffusione del coronavirus, ha approvato misure restrittive che hanno colpito il lavoro d’informazione e persino la distribuzione dei giornali. Provvedimenti simili sono stati adottati in Egitto, Yemen, Oman, Giordania e Marocco. In Arabia Saudita chiunque diffonda «notizie o voci false» sul Covid-19 rischia pesanti multe e la reclusione. E per due giornalisti della giordana Roya TV si sono addirittura aperte le porte del carcere per aver mandato in onda un servizio in cui alcune persone si lamentavano del blocco delle attività economiche ordinato dal governo, che ha lasciato senza reddito decine di migliaia di lavoratori del settore privato.

 

Di sicuro non è cambiato nulla neanche nei rapporti tra Israele e i Palestinesi nei Territori occupati e persino con quelli che sono cittadini dello Stato ebraico. Malgrado medici ed infermieri arabo-israeliani – così sono chiamati i Palestinesi con passaporto israeliano – abbiano dato un contributo importante alla cura e all’assistenza dei malati di Covid-19. E malgrado le autorità municipali arabe si siano dimostrate solerti ed efficienti nel seguire i provvedimenti approvati per contenere il contagio. Eppure il governo ha destinato loro appena l’1,7% dei sussidi stanziati a sostegno dell’economia, sebbene la minoranza araba rappresenti il 21% della popolazione totale di Israele. Pertanto nulla è mutato nel rapporto consueto tra Stato d’Israele e cittadini arabi. La crisi sanitaria inoltre non ha posto un freno alle politiche di occupazione militare. L’esercito israeliano ha proseguito negli ultimi mesi raid e arresti di Palestinesi «sospetti» in Cisgiordania. I centri per i diritti umani locali denunciano che le direttive d’emergenza hanno reso più difficile documentare abusi e violazioni a danno dei Palestinesi, come la confisca di terre, i progetti di costruzione di insediamenti coloniali e le demolizioni di case. L’associazione per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi di coloni israeliani a contadini e pastori palestinesi, con la copertura dell’esercito. Inoltre il governo israeliano ha messo in detenzione domiciliare alcune centinaia di prigionieri per diminuire l’affollamento nelle carceri ma tra questi non c’è alcuno dei circa cinquemila Palestinesi reclusi per motivi politici – di «sicurezza» si dice in Israele –, neanche i minori.

 

La pandemia ha prodotto indirettamente la riabilitazione del premier e leader della destra israeliana Benyamin Netanyahu. Incriminato formalmente per corruzione, frode e abuso di potere, considerato ormai sul viale del tramonto politico, il premier israeliano (al potere da dieci anni) non solo ha vinto le elezioni del 2 marzo ma ha anche scardinato l’opposizione. È riuscito infatti ad allearsi con il capo del partito Blu Bianco, per un anno suo principale avversario, Benny Gantz. Tra le proteste dei suoi alleati, Gantz ha sotterrato l’ascia di guerra e si è detto pronto a formare con Netanyahu un esecutivo di «emergenza nazionale» per porre termine allo stallo politico, non superato da tre elezioni in undici mesi, e per portare Israele fuori dalla crisi sanitaria ed economica causata dal coronavirus. Invece il nuovo governo, guidato ancora da Netanyahu – si attendeva l’annuncio ufficiale il 13 maggio, ne dovrebbe far parte anche ciò che resta del Partito Laburista –, sarà un esecutivo politico che avrà come compito prioritario l’annessione unilaterale a Israele della Valle del Giordano e delle ampie porzioni di Cisgiordania palestinese dove sono situati gli insediamenti coloniali ebraici. Tutto in linea con l’Accordo del Secolo, il piano annunciato il 28 gennaio dall’Amministrazione Donald Trump che concede ai Palestinesi uno staterello senza sovranità su di un 11-12% della Palestina storica, lasciando il resto a Israele.

 

Secondo stime fatte dai media locali, il piano di annessione dovrebbe riguardare circa il 30% della Cisgiordania. Tuttavia, nero su bianco, le ambizioni del governo Netanyahu sono ancora nascoste. È probabile che durante le riunioni in corso del team congiunto israelo-statunitense, incaricato di disegnare sulle mappe l’entità dell’annessione di terre palestinesi, i rappresentanti israeliani stiano cercando di ottenere una fetta più ampia di Cisgiordania. La motivazione è quella della «sicurezza», spiegano fonti israeliane. In sostanza la «protezione» delle colonie vicine all’entità palestinese richiederebbe la costituzione di «zone cuscinetto», aree di separazione sorvegliate dall’esercito. Non ci vuole molto a comprendere che, se il piano Trump sarà realizzato, ai Palestinesi andrebbe ciò che già ora controllano amministrativamente, ossia le «aree autonome» ottenute con gli Accordi di Oslo del 1993 in cui si concentrano i loro centri abitati e la maggioranza della loro popolazione. Parliamo di meno del 40% della Cisgiordania. Israele otterrebbe almeno il 60% del territorio di cui ha conservato il controllo temporaneo dopo Oslo. La Striscia di Gaza sarà lasciata al suo destino, isolata, staccata dal resto dei Territori palestinesi, con i suoi due milioni di abitanti di fatto affidati alle organizzazioni umanitarie internazionali. Netanyahu peraltro è favorevole a un accordo di tregua a lungo termine con il movimento islamista Hamas, che controlla Gaza, se sarà raggiunto alle sue condizioni e verrà garantita la tranquillità del suo territorio meridionale.

 

L’Olp e l’Autorità Nazionale presieduta dal Mahmoud Abbas (Abu Mazen) respingono il piano di annessione e l’invito a negoziarlo con Israele che giunge da Washington. Andare al quel tavolo di trattativa, ripetono i Palestinesi, significherebbe avallare un progetto che legalizza l’occupazione israeliana e il nascente «sistema di apartheid». Perciò si affidano al richiamo al rispetto del diritto internazionale che l’Europa e alcuni Paesi rivolgono a Israele e agli Stati uniti. Ma il clima è amico di Netanyahu. Il mondo arabo, da tempo in buona parte indifferente alla causa palestinese e più vicino a Israele (a partire dai Sauditi), sarà impegnato ad affrontare, come gran parte del mondo, le conseguenze economiche causate dalla pandemia. E non è escluso che i regimi arabi debbano fare i conti con una seconda “Primavera araba”, come indicano le proteste popolari in corso in Libano e Iraq e le sollevazioni intermittenti in Algeria, Sudan e altri Paesi. Senza dimenticare che continuano le guerre in Siria e Yemen e che neppure il coronavirus ha spinto Arabia Saudita e Qatar a risolvere lo scontro che va avanti da tre anni. E dagli Usa non arrivano notizie che possano accendere le speranze dei Palestinesi. I sondaggi danno in risalita il gradimento di Donald Trump e l’ormai certo candidato dei Democratici alle presidenziali di novembre, Joe Biden, ha già messo in chiaro che, se vincerà, non riporterà l’ambasciata americana a Tel Aviv in modo da annullare il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto dall’Amministrazione in carica il 6 dicembre 2017. Biden peraltro non si è espresso sul progetto di annessione ed è forte il sospetto che stia aspettando che Israele lo porti a compimento per poi riconoscerlo come un dato di fatto.

 

In questo clima Netanyahu, più forte che mai, il 1° luglio darà inizio all’iter legislativo per estendere la «sovranità di Israele» in Cisgiordania.

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