In Bielorussia la partita è tra Putin e gli operai

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

Forse in pochi ci avrebbero creduto dopo che le proteste avevano assunto un grande carattere popolare di massa e avevano coinvolto anche le fabbriche ma Lukashenko – combattente coriaceo va riconosciuto - è riuscito in qualche misura a stabilizzare la situazione in Bielorussia.

Il prezzo che sta pagando è enorme dal punto di vista politico ma primum vivere, deinde philosophari. Il Cremlino che nelle prime due settimane era passivo osservatore della vicenda al punto di permettere persino le manifestazioni anti-Lukashenko davanti all'ambasciata bielorussa a Mosca (dall'inizio del coronavirus è vietata qualsiasi manifestazione in città), ha deciso di spostare tutto il suo peso a sostegno del regime di Minsk ma il presidente bielorusso ha dovuto promettere d'ora in poi di essere un alleato fedele della Federazione. Un prezzo non da poco per un leader bizzoso che fino a poco tempo fa ricattava Putin acquistando petrolio dagli Usa e incarcerava 33 contractors russi in partenza per il Venezuela accusandoli di essere destabilizzatori del paese.

 

L'impossibilità di continuare quel doppio gioco a cui era abitato da decenni per Lukashenko è determinato anche da fattori economici. Il rublo bielorusso è in caduta libera e dall'inizio dell'anno ha perso il 30% del suo valore, un fenomeno determinato non dalla speculazione essendo il mercato finanziario di Minsk troppo ristretto per qualsiasi operazione di questo genere, ma dalla corsa dei cittadini bielorussi ad acquistare valuta “forte”. Nella riunione del governo della scorsa settimana Lukashenko ha anche affermato di non essere in grado di pagare la rata di agosto del debito estero e che le manifestazioni “sono costate al paese 500 milioni di dollari”. Tanto per un Stato che ha un Pil di poco più di 60 miliardi di dollari.

 

Putin – in questo contesto - si è mosso dall'astuto tattico che è. Ha incassato la resa di Lukashenko e avrà ora perlomeno un vero alleato nella regione visto che sia la Moldavia sia l'Armenia si posizionano da tempo in una zona grigia. Non è poco a fronte del rischio strategico di perdere il valico di Brest e restare schiacciato nella tenaglia polacca e dei paesi baltici. Ma si tratta di un successo che ha anch'esso dei costi, in prospettiva, assai alti. Dichiarando che di “nuove elezioni non se parla” e di aver istruito “una eventuale forza d'intervento russa in caso prevalgano gli estremisti” Putin si è alienato le simpatie di una parte significativa (quella più giovane e dinamica) dell'opinione pubblica del “paese fratello” ma non solo. Promettendo di stabilizzare la situazione del paese anche dal punto di vista economico (un rifinanziamento del debito bielorusso per un 1 miliardo di dollari è già stato deciso nell'ultima settimana di agosto e la Russia potrebbe tornare anche a sussidiare l'economia di Minsk con la vendita di idrocarburi a basso prezzo) rischia di entrare in quella spirale che fu uno dei motivi che condusse al crollo dell'Urss: finanziare un paese per garantirsene l'alleanza. Il rischio per il Cremlino (la sua economia vale meno di quella italiana in termini assoluti) è quello di una “sindrome polacca” che negli anni '80 dello scorso secolo condusse al disfacimento del regime di Yaruzelski. Ma anche qui Putin, come un re sotto scacco ha poche possibilità di arrocco.

 

Dall'altra parte se il movimento di opposizione democratica (ancora oggi largamente spontaneo e orizzontale) continua a resistere malgrado repressioni e intimidazioni e diventerà sicuramente un fattore stabile della politica bielorussa, sconta i limiti di una direzione che inevitabilmente ha i suoi padrini in occidente, in primo luogo a Berlino e in parte a Washington (via Varsavia). L'approccio nei confronti di Mosca dei “portavoce” resta incerto: si sa benissimo che l'economia del paese è altamente integrata con con quella russa ma non si vuole sciogliere la questione del posizionamento internazionale della futura Bielorussia e ciò li rende altamente indigesti a Mosca. La mancanza di uno sbocco della crisi potrebbe anche alimentare spinte secessioniste già presenti nella regione di Grozno al confine con la Polonia dove maggiormente si sentono le differenze di reddito pro capite tra i due paesi slavi. In un quadro, va ricordato, in cui la guerra fredda 2.0 – a seguito del caso Navanly – rischia di approfondirsi.

 

Ma dentro questa vicenda c'è il fattore c, il fattore classe lavoratrice bielorussa che ha intuito e percepito la propria forza in queste settimane. In Europa dopo decenni il proletariato è tornato ad avere un ruolo autonomo, ancora nascente, ma autonomo. Ma è ancora un ruolo reattivo e non offensivo: quando c'è stato da mettere in campo tutta la propria forza contro la violenza degli omon (i reparti antisommossa) i lavoratori si sono mobilitati e hanno messo uno stop alla mattanza (in maggioranza vorrebbero anche vedere il paese avviarsi verso la democrazia politica e lo sviluppo delle libertа sindacali) ma adesso scioperare per vedere arrivare al potere Svetlana Tikhanovskaya e compagnia non è cosa che li entusiasma, nicchiano, percepiscono che non è “roba loro”. Del resto il "governo ombra" del “comitato di coordinamento” oltre che parlare di democrazia parlamentare non fa, e non hanno nessuna intenzione di eliminare le misure antipopolari assunte di Lukashenko (aumento dell'etа pensionabile, lavoro a chiamata, privatizzazioni) perchè questo gli darebbe il favore degli operai ma li metterebbe al contempo in moto, un'ipotesi che terrorizza non solo Lukashenko ma anche le cancellerie occidentali. Ma neanche l'organizzazione sindacale e politica dei lavoratori si improvvisa in un paese che negli ultimi 26 anni ha conosciuto solo paternalismo e autoritarismo.