Come strozzare le galline senza farle strillare

di Gigi Galli

 

L’accanimento del dipartimento di Gobbi, a cui compete l’applicazione della già severa legge federale, è diventato sistematico e si allarga a poco a poco su tutta la materia relativa al rilascio dei permessi.

Nel 1969, l’anno dell’iniziativa xenofoba Schwarzenbach, apparve in Ticino una pubblicazione della contestazione giovanile intitolata “Come strozzare le galline senza farle strillare”. Ancora oggi è tradizione che la politica sporca da noi si faccia o si lasci fare senza dare voce alle vittime, senza che l’opinione pubblica interessata al rispetto dei diritti possa essere avvertita e abbia la possibilità di mobilitarsi per ostacolarla.

 

Per mettere in atto una politica migratoria più restrittiva e selettiva, il dipartimento di Gobbi ha chiuso senza che nessuno si opponesse gli uffici regionali degli stranieri. Da qualche tempo, qualsiasi richiesta in merito ai permessi deve essere eseguita online attraverso programmi macchinosi che obbligano spesso la maggior parte dei migranti del lavoro a dover ricorrere ad aiuti esterni. I funzionari che accoglievano i richiedenti agli sportelli non erano campioni di gentilezza ma perlomeno, in un rapporto tra persone, offrivano ai richiedenti la possibilità di farsi capire – contrariamente a quello che capita con la modulistica elettronica.

 

Nelle vecchie legislature liberali, quando il bisogno di manodopera era più impellente, i permessi venivano rilasciati celermente e non venivano immediatamente revocati qualora gli immigrati rimasti senza lavoro fossero stati costretti a ricorrere all’assistenza. Oggi le domande devono attendere quasi un anno per ricevere una risposta. Nel 1990 le revoche dei permessi furono soltanto 20, nel 2019 sono diventate ben 260. Il Tribunale federale – a cui, per evidenti ragioni di costi e difficoltà procedurali, si è rivolto solo una piccola parte delle persone interessate – ha giudicato che almeno un quinto di queste revoche sono da considerare arbitrarie. Sul tema dei respingimenti e sulle revoche dei permessi troviamo numeri e testimonianze significative in una recente buona inchiesta giornalistica de “Il Caffè”.

 

L’accanimento del dipartimento di Gobbi, a cui compete l’applicazione della già severa legge federale, è diventato sistematico e si allarga a poco a poco su tutta la materia relativa al rilascio dei permessi. Tra le varie misure vessatorie, troviamo quella introdotta abbastanza di recente che obbliga gli stranieri a presentare un estratto del casellario giudiziario per l’ottenimento del permesso. L’“Ufficio degli stranieri” torna così a essere come una volta, se non nominalmente almeno di fatto, la “Polizia degli stranieri”. Gli stranieri per Gobbi non sono una risorsa, sono un problema di ordine pubblico.

 

Se ci fermassimo a considerare le tendenze xenofobe intrinseche all’attuale politica migratoria restrittiva, quella della cosiddetta “dissuasione”, fondata sui respingimenti abusivi e sulla concessione limitata e discriminatoria dei permessi, continueremmo a recriminare contro il leghismo ticinese di Stato rappresentato da Gobbi che, indiscutibilmente, fa un uso demagogico del diritto. Ci limiteremmo a interpretare questo leghismo istituzionalizzato come una sorta di sindacalismo di territorio che si autopromuove difensore della “nostra gente”, ossessionata dai migranti come fantasma del corpo estraneo.

 

Per capire questo fenomeno e non lasciarci distogliere dal disgustoso lato repressivo rinforzatosi negli ultimi tempi, dobbiamo guardare anche all’altra faccia della medaglia, quella che fa chiudere più di un occhio ai nostri governanti di fronte al diffondersi del lavoro nero e sottopagato. Severi fino all’arbitrio per chi abbisogna di permessi (grazie Gobbi!), e tolleranti fino alla complicità con quelli che assoldano i “sans papiers” per pagarli meno ed evadere gli oneri sociali (indovinate grazie a chi?).

 

Dopo che i sindacati sono riusciti a far togliere dalla legge il famigerato statuto stagionale, molti imprenditori dell’edilizia, del settore alberghiero e dell’agricoltura, per far fronte ai loro bisogni nei periodi di forte attività, continuano a disporre senza limiti di manodopera al nero proveniente per lo più dalle stesse regioni balcaniche. Siccome non creano problemi d’ordine pubblico e possono appoggiarsi per l’alloggio sulle loro reti familiari, questi lavoratori sottopagati, senza vacanze e non garantiti vengono lasciati liberi di sopravvivere, trattati come fossero invisibili. Per dare sicurezza a chi crede nell’occhio vigile dell’autorità, ogni tanto, è vero, viene fatta una retata. Ma la retata è una misura umiliante e punitiva soprattutto per chi lavora. I lavoratori al nero, zavorrati dalla xenofobia, sempre assegnati a mansioni subalterne e precarie, sono esposti più di altri ad angherie e a incidenti di lavoro non risarciti. Non essendo identificabili per statuto e condizioni di lavoro con la classe operaia, non possono condividerne, neppure in parte, valori e solidarietà.

 

Al di là della retorica sui benefici del multiculturalismo e del contraddittorio sulla libera circolazione, la politica migratoria federale e quella cantonale persistono nel voler limitare i diritti di cittadinanza ai migranti e nel considerare la migrazione come un movimento lineare singolo o ripetuto da un luogo ad un altro, possibile da gestire e bloccare a piacimento. Tutto questo senza cogliere i cambiamenti che stanno avvenendo nel comportamento e nella composizione della forza lavoro, sempre più multinazionale. Senza avvertire che nel nuovo fenomeno della transmigrazione i flussi non sono più lineari bensì circolari e dunque assai imprevedibili, non facili da inquadrare dentro una politica miope di corto termine. In Ticino l’USTAT raccoglie abbastanza bene e sistematicamente i dati di questa circolarità ma i politici della statura di Gobbi non sanno o non vogliono leggerli.

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