Tra facilonerie, imbrogli e interessi economici

di Franco Cavalli

 

Scienza al tempo del COVID. Di fronte alla scienza, la maggior parte delle persone ha un atteggiamento di tipo fideistico, tendono cioè ad accettare in modo acritico qualunque cosa venga presentata come “verità scientifica”, spesso soprattutto da media alla ricerca di facili scoop.

Una minoranza, parecchio rumorosa e purtroppo sempre più numerosa, ragiona invece come se ci trovassimo ancora nei secoli precedenti a Galileo Galilei: tra questi ci sono i No Vax ed i vari complottisti che vedono dappertutto la longa manus di Soros e di Bill Gates. Come discusso in un precedente numero dei Quaderni, essendo la cultura della destra profondamente antiscientifica, quasi sempre queste persone si collocano politicamente da quelle parti, come si è potuto vedere anche nelle dimostrazioni pubbliche di coloro che denunciavano il COVID-19 come un’invenzione delle autorità.

 

Purtroppo pochi sono coloro che sanno essere giustamente critici, non accettando tutto come oro colato e denunciando, se necessario, anche le magagne dell’establishment scientifico. Ciò è dovuto al fatto che nelle nostre università la filosofia della scienza è una disciplina trascurata, e i pochi sui cultori sono spesso e volentieri distanti dalla realtà e dediti a discussioni sul sesso degli angeli. Uno dei più brillanti filosofi della scienza, Giulio Giorello, che ha saputo ben popolarizzare questo tema, ci ha purtroppo lasciato recentemente proprio a causa del COVID.

 

 

Cos’è scientifico?

 

Avendo la presunzione di farmi capire, cercherò di evitare bibliografie e citazioni altisonanti. Soprattutto se parliamo delle scienze che hanno a che fare con la materia vivente, ciò che riteniamo essere scientificamente appurato non rappresenta la verità assoluta, ma semplicemente la miglior approssimazione alla verità possibile in quel momento. E ciò per varie ragioni. Prima di tutto perché, senza voler ritornare alle pagine magistrali di Engels sull’applicazione del materialismo dialettico alla natura o a quelle di Darwin sull’evoluzione, oggi sappiamo che la materia vivente non solo evolve, ma vive in uno stato continuo di dinamicità, per cui l’espressione esterna che noi apprezziamo (il cosiddetto fenotipo) può variare e non solo sui tempi lunghi. Inoltre per studiare la natura abbiamo bisogno di una serie di tecnologie, le quali evolvono continuamente: è ben diverso quello che si può dimostrare a proposito di un batterio studiandolo al microscopio o sequenziando le molecole dei suoi cromosomi.

 

L’esempio forse più famoso, anche perché ha avuto delle importanti conseguenze politiche, è quello della diatriba sul lamarckismo. Il cavaliere Jean-Baptiste de Lamarck è stato il primo a postulare una teoria dell’evoluzione, dove però egli affermava che questa avveniva grazie al passaggio da una generazione all’altra di caratteri acquisiti durante la vita. Le successive scoperte di Darwin, Weissman e soprattutto Mendel dimostrarono invece che quanto noi acquisiamo durante la vita non modifica la struttura dei nostri cromosomi, per cui è impossibile trasmetterlo alle generazioni successive. Durante il peggior periodo staliniano, Ždanov ripescò Lamarck giudicandolo rivoluzionario (modificando la società, modificheremo anche quanto viene trasmesso alle future generazioni e quindi creeremo l’uomo nuovo), bollando invece come “borghesi” le opinioni scientifiche diverse e reprimendo duramente tutti i ricercatori che non accettavano questa verità. Le nuove scoperte della biologia molecolare degli ultimi anni hanno però in parte riabilitato Lamarck: non solo esseri viventi unicellulari a riproduzione asessuata possono effettivamente trasmettere caratteri acquisiti, ma oggigiorno sappiamo anche che il nostro fenotipo non è determinato solo dal genotipo (cioè dal DNA dei cromosomi), ma anche da tutte quelle funzioni riunite sotto il termine di epigenetica (letteralmente “al di sopra della genetica”), con il quale si designano complessi meccanismi basati soprattutto su RNA che hanno la capacità di modulare l’espressione dei nostri geni. E diverse di queste “acquisizioni epigenetiche” possono effettivamente venir trasmesse alle generazioni seguenti.

 

 

La metodologia statistica

 

Ho pensato a questo articolo per le innumerevoli polemiche che hanno accompagnato le previsioni dei vari virologi e l’enorme numero di studi scientifici (47’000 in poche settimane!) apparsi in seguito alla pandemia. Diversi conoscenti mi hanno scritto “ma che brutta figura fanno questi ricercatori, cosa ne dici?”. Prima di entrare nel merito, devo purtroppo dilungarmi spiegando quella che è la metodologia usata per condurre ricerche che hanno direttamente a che fare con i pazienti. Mi limito quindi agli studi clinici, tralascio quelli retrospettivi (metodologicamente quasi sempre discutibili) e mi concentro su quelli prospettivi, nei quali si pianifica lo studio e poi, come si dice nella terminologia, si acquisiscono i pazienti. Qui la metodologia più assodata è quella degli studi randomizzati: se si vuole paragonare l’efficacia di diversi trattamenti, visto che i fattori spesso sconosciuti che possono influenzare il risultato sono molteplici (età, sesso, malattie precedenti, etc.), l’unico modo per equilibrare le popolazioni è d’assegnare la terapia che riceverà il singolo paziente in modo casuale (con computer), includendo anche un numero sufficiente di casi affinché questo riequilibrio possa avvenire per la legge dei grandi numeri. Alla fine, se tra i vari trattamenti ci sono delle differenze, queste verranno dichiarate come “statisticamente dimostrate” nel caso in cui le probabilità che questo risultato non sia dovuto solo al caso (che non si può mai del tutto escludere) siano inferiori al 5% (negli studi più “sicuri”, che necessitano però di più pazienti, la soglia viene abbassata all’1%). Questo significa quindi che in questi studi non si può mai escludere completamente che il risultato non sia dovuto al caso: per accettare come dimostrata la superiorità di un certo trattamento si richiedono perciò di solito più studi. Questo fatto, assieme alla necessità di seguire un certo percorso a più fasi (fasi 1: solo studio della tossicità; fase 3: dimostrazione dell’efficacia,…), spiega come mai i tempi tecnici stimati per la commercializzazione di un vaccino per il coronavirus siano stimati tra i 12 e i 18 mesi.

 

Un’altra considerazione preliminare mi pare necessaria: i risultati delle ricerche vengono di solito sottoposti per pubblicazione ad una delle tante riviste scientifiche, che funzionano secondo il principio del peer review. Cioè l’articolo viene sottoposto ad una serie di esperti, che devono valutarlo e sulla base di questi giudizi il comitato editoriale della rivista decide poi se pubblicarlo o meno. Durante la crisi COVID-19, quando all’inizio ci siamo trovati ad affrontare una malattia completamente sconosciuta e nuova, per ragioni “umanitarie” le riviste hanno permesso ciò che di solito è proibito: cioè che i ricercatori potessero far circolare in un cosiddetto pre-print i loro risultati, prima che questi venissero accuratamente valutati come avviene di solito. Questo ha naturalmente portato alla diffusione di risultati che non potevano ancora essere considerati come assodati.

 

 

L’imbroglio degli interessi

 

Arrivati a questo punto il lettore attento dovrebbe aver capito come mai, quando ci si trova di fronte ad una malattia completamente nuova, per un certo periodo di tempo sia normale avere risultati contraddittori. Quanto abbiamo però vissuto con il COVID-19 va ben al di là di quanto ci si può ragionevolmente aspettare. Si pensi per esempio a quella serie di virologi, fin lì sconosciuti, che hanno approfittato del momento per profilarsi a colpi di sentenze altisonanti (non sempre ragionevoli).

 

La crisi ha però soprattutto potenziato quei meccanismi che già normalmente esistono e che influenzano quanto la scienza produce. Da una parte è evidente, e negli ultimi anni dozzine di esempi l’hanno dimostrato, che buona parte della ricerca scientifica è più o meno pesantemente influenzata da interessi economici importanti: da quelli dei monopoli farmaceutici per quanto riguarda l’efficacia dei medicamenti, a quelli dell’industria petrolifera quando si discute della crisi climatica. Personalmente, almeno in due casi, sono stato oggetto di tentativi spudorati di corruzione quando ero responsabile di altrettanti studi con farmaci antitumorali. Però anche molti ricercatori ci mettono del loro. Di fatti sia la loro carriera accademica che la loro situazione economica dipendono spesso dal riuscire a pubblicare i propri risultati in una rivista scientifica importante, quelle a cosiddetto alto fattore di impatto.

 

Queste ultime, con abbonamenti estremamente cari, sono delle vere macchine da soldi. Basti pensare per esempio che una casa editrice come Elsevier, che pubblica 2’500 riviste, genera un guadagno annuo di 1,5 miliardi. I comitati editoriali, magari anche per intascarsi qualche bonus, fanno quindi a gara per assicurarsi gli articoli che sembrano più interessanti. Nei mesi scorsi quindi gli svarioni si sono moltiplicati, tanto che addirittura le due riviste mediche più prestigiose (il Lancet e il New England Journal of Medicine), hanno dovuto ritirare, dichiarandolo quindi nullo, un articolo a testa. Si è addirittura parlato di “Lancet Gate”, in quanto la pubblicazione di una fantomatica popolazione di quasi 100’000 pazienti (nel frattempo sembrerebbe che sia stata costruita hackerando i computer di diverse centinaia di ospedali) aveva portato vari governi, tra cui quello francese, a proibire l’uso della idrossiclorochina, il farmaco magnificato da Trump e dal virologo marsigliese Raoult, quest’ultimo specializzato in studi metodologicamente poco affidabili. A chi volesse seguire questa storia, che ha del poliziesco, consiglio di legger la documentazione estremamente rivelatrice pubblicata da Le Monde il 17 giugno scorso.

 

Possiamo quindi concludere che buona parte dell’establishment scientifico è oggi corrotto: questo fatto non fa che confermare quanto aveva già predetto Karl Marx, e cioè che se non si modificavano i meccanismi fondamentali della società borghese, alla fine ogni aspetto della vita sarebbe stato giudicato, e quindi corrotto, in base ai relativi valori di mercato. Ma non per questo dobbiamo perdere la fiducia nella scienza, anzi: rinunciarvi vorrebbe dire tornare al Medioevo. Oggi più che mai dobbiamo salvare la scienza dal capitalismo.

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