Potere Operaio nell’Italia degli anni ’70

di Gigi Galli

 

Riflessioni su un’esperienza operaista rivoluzionaria che influenzò la sinistra di classe ticinese.

Nel lungo ‘68 italiano si è assistito al proliferare di molti gruppi extraparlamentari spesso in contrapposizione tra loro: alcuni generati dagli sviluppi spontanei del movimento studentesco, altri con radici più lontane, nati all’interno delle contraddizioni di un Partito comunista rivelatosi inadeguato nel rappresentare le istanze di cambiamento culturale e il nuovo ciclo di lotte operaie di quegli anni.

 

Che fine hanno fatto queste formazioni? I gruppi maoisti ispirati alla rivoluzione culturale cinese e fautori della lotta contro il cosiddetto revisionismo non hanno lasciato nessuna traccia, così come altri effimeri partitini di orientamento trotzkista, stalinista, marxista-leninista e bordighista. Diverso, certamente più complesso e produttivo, il destino delle formazioni sorte all’interno del movimento operaio italiano e risultanti dalla sua frammentazione a sinistra. Tralasciamo qui di considerare quelle a carattere spontaneista, come Lotta Continua (LC, forse l’organizzazione militante più diffusa all’interno del proletariato metropolitano e di fabbrica dal 1970 al 1975) e quelle che, legate a una tradizione leninista resistenziale, si avviarono verso forme di clandestinità e di lotta armata.

 

La nostra attenzione è rivolta a chi cercò di inserirsi nella porta stretta della tradizione operaista rivendicandone una linea di continuità. Pensiamo a Potere Operaio (PO), una formazione rivoluzionaria considerata tra le più agguerrite e dotata di notevole spessore teorico. Essa ebbe, come LC, agganci e influenze importanti anche nell’estrema sinistra ticinese. Nacque sull’onda dell’Autunno caldo del ‘69 dall’aggregazione fra collettivi d’intervento nelle fabbriche e organizzazioni del movimento studentesco. I suoi poli erano Torino, Milano, Padova-Marghera e Roma. Si sciolse dopo varie tribolazioni nel 1973, quando l’apparizione delle Brigate Rosse mise in crisi la sua strategia insurrezionalista e il suo gruppo dirigente, di fronte a un contesto economico e sociale che si stava modificando, non fu più in grado di restare unito e ancor meno di tenere unita l’organizzazione.

 

Per rivisitarne le origini e gli esiti, prendiamo parzialmente spunto dall’opera di Mario Scavino “Potere Operaio. La storia. La teoria” (vol. 1, DeriveApprodi, 2018), che costituisce un importante tassello nella costruzione di un archivio sui movimenti degli anni ‘60 e ‘70 che la casa editrice DeriveApprodi porta avanti da anni. Scavino dedica gran parte della sua ricerca alla matrice operaista di PO: “un rapporto complesso, quello con l’operaismo, fatto indubbiamente di continuità ma anche di contributi originali e innovativi”.

 

Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo” non è un sistema organico ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti fin dagli inizi degli anni ‘60 e con sviluppi successivi da alcuni intellettuali militanti (Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri, Romano Alquati, Gaspare De Caro, Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi…) che hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” (1960) e “Classe Operaia” (1964): un laboratorio di intuizioni e di elaborazioni sul rapporto capitale/lavoro e sulle sue trasformazioni.

 

Lo stimolo iniziale fu dato dalla lettura del “Frammento sulle macchine” dei “Grundrisse” di Marx. La teorizzazione marxiana del general intellect (ovvero la trasformazione del sapere sociale generale in forza produttiva immediata: le macchine, organi dell’intelligenza umana) conduceva a mostrare quanto la tecnologia fosse lavoro incorporato in grado di plasmare la forza lavoro, di determinare talune sue caratteristiche professionali, fino a ripercuotersi sulla sua mentalità, sulla sua cultura e quindi sul suo agire politico. L’idea iniziale dell’operaismo, stando a Sergio Bologna (uno storico che fu militante critico di PO e fondatore nel 1973 della rivista “Primo Maggio”), “era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario: l’operaio massa”.

 

Il termine “operaio massa” indicava i settori non qualificati, mobili, intercambiabili della forza lavoro. Si pensi al bracciante, edile, disoccupato meridionale che emigra nelle aree industriali del nord a sostituire gli operai professionalizzati, di mestiere, affezionati agli strumenti e al prodotto del loro lavoro. All’operaio massa non interessa il coinvolgimento nella gestione, vuole “tutto e subito”. La figura tipica o ideale di operaio massa la si trova ben illustrata nel romanzo, molto rappresentativo dell’epoca, di Nanni Balestrini “Vogliamo tutto” (Feltrinelli, 1971). Il protagonista Alfonso è un giovane campano che emigra a Milano dove fa esperienze di fabbrica e scatena una spavalda guerriglia contro il lavoro.

 

Quando, alla fine degli anni ‘60, la figura dell’operaio massa si concretizzò materialmente nelle lotte delle grandi fabbriche del Nord Italia, i teorici dell’operaismo italiano presero strade diverse. Gli operaisti di destra come Tronti, Asor Rosa e Cacciari scelsero di tornare al Pci (nel quale aldilà dei proclami iniziali non fecero alcuna battaglia di opposizione) mentre gli operaisti di sinistra, optando per la scelta rivoluzionaria contro e fuori i partiti storici del movimento operaio, diedero vita a iniziative diverse da cui scaturirono, dopo una breve condivisione di percorso dentro la rivista “La Classe”, Lotta Continua e Potere Operaio.

 

Il progetto politico di POTOP venne definito in termini di strategia e di obiettivi politici in una riunione di inizio agosto 1969 a Fiesole tra militanti dei collettivi di intervento politico e gruppi studenteschi che avevano vissuto da protagonisti le vicende di lotta alla FIAT. Intenzionati a dare consistenza organizzativa al movimento, la loro prima iniziativa fu quella di lanciare un nuovo settimanale con una testata, “Potere Operaio”, già usata a livello regionale. Per consentire un salto qualitativo allo scontro avvenuto nell’ultimo decennio e trovare uno sbocco politico rivoluzionario alla classe operaia, PO intendeva allargare le lotte dalla fabbrica all’intera società sostenendo al più presto il passaggio dall’autonomia all’organizzazione.

 

La provenienza spontaneista e addirittura libertaria di molti militanti venne sin dall’inizio a confliggere con l’adozione progressiva di un modello leninista (“organizzazione come voleva Lenin, esterna alla classe ma tutta della classe”, per riprendere le parole di Negri). L’ambiguità di un’organizzazione “bolscevica-spontaneista” che voleva fare la rivoluzione politica e prendere il potere attraverso moti insurrezionali di massa non si sciolse mai. Finì per caratterizzare tutta la parabola di PO e verosimilmente per provocarne – “nel suo carattere irrisolto” e a seguito di diversi insuccessi – lo scioglimento.

 

Nel suo libro, Scavino analizza a fondo e cronologicamente i contenuti che furono alla base del gruppo: dapprima il rifiuto del lavoro, l’autonomia dal controllo sindacale, l’uso politico delle rivendicazioni salariali, l’abolizione degli incentivi, l’egualitarismo e la rottura del rapporto lotte/sviluppo e della possibilità per lo Stato di controllarne la dinamica fino a “far saltare il piano del capitale”. Il passaggio da una concezione salarialista della lotta operaia (“colpire al cuore la produzione”) alla guerra di classe insurrezionale per il potere (“democrazia è il fucile in spalla agli operai”) fu contrastato ma accelerato da avvenimenti esterni (Piazza Fontana,…).

 

Scavino termina il primo volume della sua ricerca ricordando il progetto di aggregazione fallito con il “Manifesto”. Progetto che all’epoca provocò molta sorpresa. Oreste Scalzone nel 2005 in un’intervista di Aldo Grandi affermò: “È evidente, con lo sguardo di oggi, il carattere di doppia strumentalità incrociata: noi eravamo per loro la testa di ponte con il movimento giovanile, con gli operai massa selvaggi, gli studenti ribelli, e le lotte dei quartieri, loro per noi rappresentavano il meglio della tradizione del comunismo storico […]. Il tentativo si consumò rapidamente […] Pintor con il suo realismo lucido e freddo tagliò corto”.

 

Anticipando il secondo volume che sarà pubblicato da DeriveApprodi, ricordiamo che nel 1973 Potere Operaio si sciolse formalmente nel convegno di Rosolina. Già da mesi le divisioni interne e gli abbandoni lasciavano presagire la sua fine. (Uno dei suoi leader aveva sentenziato che “bisogna saper morire per rinascere diversi”.)

 

Alcuni compagni, considerata tradita l’ispirazione originaria del gruppo e sempre più scettici di fronte all’impostazione leninista centralizzatrice, se ne andarono per loro conto nell’intento di montare un circuito culturale alternativo. (Al riguardo, Sergio Bologna ha affermato: “Quando si dice che me ne sono andato perché ero contrario all’uso della violenza non è vero, non è vero. Potevo essere contrario al modo in cui si pensava di esercitarla o ai personaggi su cui si pensava di poter contare (ho avuto facile ragione, ahimè). Ma la verità è che me ne sono andato perché “Potere Operaio” era la riproduzione di un modello bolscevico fuori tempo, analogo a quello di tutti i gruppi extraparlamentari, non aveva quella bella “diversità” che è propria dell’operaismo, anzi ne era la negazione.”) Altri, soprattutto Piperno e i compagni romani, si lasciarono sedurre dai successi che le formazioni armate stavano ottenendo. In attesa di individuare nuove strategie, si misero a lavorare attorno a progetti di militarizzazione, restando intesi che la lotta armata dovesse svilupparsi in un rapporto stretto e diretto con le lotte di massa.

 

Chi, assieme a Tony Negri (“Il terrorismo non ci interessa così come non ci interessano gli ultimi sussulti del rivendicazionismo fabbrichista”), ebbe maggior capacità di percepire e di leggere la realtà politica che si andava delineando dopo lo sconvolgimento del sistema produttivo e la trasformazione in senso cognitivo e linguistico del lavoro, scelse di andare avanti nella discontinuità. In contrapposizione alla militarizzazione che si stava diffondendo attorno al partito armato, il gruppo di Negri si mise dalla parte dei nuovi soggetti rivoltosi, delle nuove generazioni che praticavano l’illegalità di massa (tipo l’esproprio proletario nei grandi magazzini, i blocchi nei caselli autostradali, le auto-riduzioni delle bollette…) e si attivò a formare il movimento Autonomia Operaia.

 

Le lotte vittoriose condotte dall’operaio massa nell’Autunno caldo del ‘69 avevano bloccato la produttività delle grandi fabbriche e costretto il capitale a smantellarle, a diffonderle su tutto il territorio e nella società. L’operaio massa su cui PO aveva fondato la propria strategia scomparve assieme all’organizzazione (che, senza reclutarne molti, lo aveva maggiormente teorizzato) per lasciare il posto a una nuova soggettività ribelle protagonista delle lotte successive di Autonomia Operaia: l’operaio sociale.

 

Il 7 aprile 1979, poco dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, la magistratura italiana riportò PO sulle prime pagine dei giornali. Il momento della vendetta era arrivato. I militanti più noti, soprattutto quelli dell’area padovana, vennero arrestati con l’accusa si aver costituito la direzione strategica delle Brigate Rosse. L’accusa era insostenibile. E infatti cadde miseramente. Ma gli arresti vennero convalidati e ampliati nel dicembre dello stesso anno sulla base delle dichiarazioni di uno squallido pentito. L’iter giudiziario fu lunghissimo e penoso, a una sessantina di imputati legati all’esperienza di Potere Operaio e di Autonomia Operaia furono comminati oltre cinquecento anni di prigione. Non è servito però a mettere fine alla loro volontà di resistere e di produrre idee. Alcuni dei condannati del 7 aprile, pensiamo soprattutto a Tony Negri, li ritroviamo tra i maggiori e riconosciuti interpreti delle realtà conflittuali che stiamo vivendo.

 

Per approfondire l’influenza dell’operaismo e di PO in Svizzera attraverso lo studio e l’esperienza politica straordinaria di un militante ticinese, si raccomanda la lettura di “Il lavoro, la fabbrica, la città. Gli scritti di Sergio Agustoni, intellettuale militante”, Edizioni Casagrande, a cura di Christian Marazzi e con saggio introduttivo di Mattia Pelli, in uscita in questi giorni.

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