Donne e lavoro: a che punto siamo?

di Ruth Mascarin, (traduzione di FC)

 

Automatizzazione e digitalizzazione

Le modifiche strutturali nel mondo del lavoro a seguito della digitalizzazione avanzano anche da noi. Vale quindi la pena di domandarsi: le donne ne sono particolarmente toccate?

Negli ultimi due decenni l’occupazione si è spostata soprattutto verso settori ad orientamento tecnologico o in quelli dove sono richieste alte qualifiche ed approfondite conoscenze scientifiche. Nel nostro quotidiano, l’esempio tipico a cui siamo confrontanti è quello delle cassiere, che nei supermercati vengono sostituite da casse automatiche. Secondo la SECO sembrerebbe però che la digitalizzazione non abbia delle conseguenze negative legate specificamente al genere. Per mancanza di dati, non sappiamo neanche se la digitalizzazione stia portando ad un aumento del precariato nel lavoro a domicilio, ad alta intensità occupazionale ma privo di coperture sociali.

 

I movimenti femministi per il momento non si sono ancora occupati dei problemi della digitalizzazione. Le domande senza risposta non concernono solo la possibilità che l’automatizzazione dei processi lavorativi aumenti la discriminazione a danno delle donne, ma anche se le donne abbiano o no le stesse possibilità degli uomini nelle nuove tipologie di lavoro che stanno nascendo. Secondo un rapporto della SECO (2019), negli ultimi 20 anni in Svizzera sono andati persi circa 350’000 posti di lavoro; nello stesso periodo ne sono però stati creati 860’000 grazie al progresso tecnologico e a condizioni quadro favorevoli. Secondo la SECO un’ulteriore digitalizzazione dovrebbe quindi far aumentare i posti di lavoro. Ma i settori in espansione, soprattutto l’informatica e le comunicazioni, interesseranno anche le donne? Queste ultime godranno delle stesse condizioni degli uomini? Cosa fare affinché le ragazze delle scuole medie scelgano questo tipo di formazione?

 

Il caso dell’associazione ICT Scouts/ Campus, che si occupa di cercare giovani talenti dell’informatica in Svizzera, è rivelatore. L’associazione, finanziata per due terzi da ditte del settore e per un terzo da fondi pubblici, ha lanciato il suo programma di scouting a Berna, Zurigo e nella Svizzera nord-occidentale. Le persone interessate vengono sottoposte ad un test di circa quattro ore, nel corso del quale vengono valutate le capacità logiche e di problem solving, oltre all’interesse a trovare soluzioni tecnologiche. Sulla base dei risultati al test vengono selezionati coloro che parteciperanno alla formazione fornita dall’associazione (chiamata “ICT Campus”), che ha luogo ogni secondo sabato per un lungo periodo di tempo. Tutto naturalmente è gratuito. Secondo i responsabili del Campus, per quanto riguarda il talento non c’è alcuna differenza tra ragazzi e ragazze. Però tra gli allievi che hanno 12-15 anni, il 90% di quelli che si sono annunciati per il progetto sono ragazzi, anche se la percentuale delle ragazze che vengono selezionate per partecipare al Campus è di gran lunga superiore. Insomma, se si vogliono garantire le stesse possibilità alle donne in questi nuovi settori, bisogna motivare e sostenere le ragazze sin dalla più giovane età.

 

È evidente che l’economia ha bisogno di questa forza lavoro e che quindi la digitalizzazione può essere un’opportunità anche per le donne. La trasparenza e l’uguaglianza dei salari, così come le quote nei consigli d’amministrazione rimangono delle richieste essenziali dei movimenti femministi. Però, per quanto riguarda l’economia, dobbiamo allargare i nostri orizzonti. Da un punto di vista politico dobbiamo continuare a rivendicare una ridistribuzione radicale del potere, delle risorse e dei compiti, per esempio per quanto riguarda il lavoro domestico e quello di care.

 

 

 

Lavoro di care

 

L’economia di care racchiude tutte quelle attività, pagate o non pagate, che hanno a che fare col prendersi cura e il sostenere le persone. Tra le attività remunerate si contano per esempio quelle praticate in strutture sanitarie e educative. Quelle non pagate, invece, includono il lavoro domestico, il fatto di occuparsi di bambini, vecchi e ammalati a casa, o ancora l’aiuto prestato ad altre economie domestiche. Il lavoro di care non remunerato è quindi quasi identico a quello che Marx definiva “lavoro di riproduzione”, il quale però include anche il generare figli. Il valore venale del lavoro non pagato in Svizzera viene calcolato dall’Ufficio Federale di Statistica: la parte di questo lavoro fornita in più dalle donne rispetto agli uomini rappresenta circa 85 miliardi di franchi all’anno (2016). Possiamo quindi dire che si tratta di una somma che annualmente viene sottratta alle donne – un fatto che va fermamente ricordato nelle discussioni sull’aumento dell’età pensionabile per le donne.

 

Nel raffronto internazionale le donne svizzere hanno una delle percentuali più alte di attività lavorative: la maggior parte lavora però a tempo parziale. Il tipico modello della famiglia svizzera è sempre ancora quella dell’uomo che lavora al 100% e la donna 1-3 giorni la settimana. Il 60% delle donne lavorano a tempo parziale, percentuale che sale all’80% se si considerano le madri. Questa situazione si spiega con il fatto che è la donna ad occuparsi di gran parte del lavoro di care: nell’87% delle famiglie i lavori domestici sono svolti dalla donna.

 

È interessante notare che la maggior parte delle coppie non pianifica sin dall’inizio questo tipo di suddivisione del lavoro, profondamente contrario alla parità di genere. Sono le condizioni della società che lo determinano: per gli uomini ci sono poche possibilità di lavoro a tempo parziale e quando l’opportunità si presenta le possibilità di carriera sono praticamente nulle. Senza dimenticare che gli stipendi degli uomini sono mediamente più alti.

 

Siccome il lavoro di care viene fatto gratuitamente, questo tipo di suddivisione dei compiti rappresenta un grosso svantaggio per le donne, non solo da un punto di vista finanziario. Facciamo un esempio: una donna con una buona formazione riduce la sua percentuale lavorativa quando ha 32 anni, perché è incinta. In funzione della nascita di altri eventuali figli, aumenterà poco a poco la sua attività lavorativa nei 10 anni seguenti. A quel momento però guadagnerà molto meno che se non avesse interrotto la sua attività lavorativa e avrà versato meno contributi al secondo pilastro, a scapito della sua pensione. Finché è sposata avrà diritto alla metà di quanto il marito ha versato alla cassa pensione; peccato però che quasi la metà dei matrimoni si sciolga: in quel caso la donna non ha alcun diritto su quanto continuerà a versare l’ex-marito. Particolarmente sfavorite sono quindi le madri nubili, che non possono avere nessun supporto per la cassa pensione. Le pensioni per le donne sono in media più basse del 37% rispetto a quelle degli uomini, e molte donne non hanno nessun secondo pilastro, perché hanno lavorato solo a tempo parziale o per una funzione a basso stipendio. Due terzi di coloro degli anziani che ricorrono alle prestazioni complementari sono donne: ecco perché la diminuzione del limite minimo a partire dal quale si ha diritto ad una cassa pensione è una richiesta fondamentale. Questo tipo di suddivisione del lavoro, sfavorevole alle donne, crea quindi delle spese supplementari allo Stato, e non al settore privato.

 

La proposta utopica di un pagamento del lavoro di care non deve essere abbandonata, ma bisogna rivendicare l’introduzione immediata di un vero congedo di paternità (e non di uno che sia solo un alibi), l’aumento delle opportunità di lavoro a tempo parziale per gli uomini, di job sharing, di giorni liberi per occuparsi di parenti ammalati, di culle e asili con abbastanza personale qualificato e a prezzi accessibili, come è il caso in buona parte della Svizzera. Su questi aspetti c’è ancora molto lavoro politico da fare, dentro e fuori le istituzioni.

 

Questi lavori che implicano una relazione con le persone e sono poco automatizzabili: per fortuna ci sono ancora delle barriere culturali che scongiurano l’introduzione di possibili robot negli asili o nelle case anziani… Il lavoro di care a domicilio, poi, è impossibile da automatizzare, ma purtroppo viene sempre più delegato. Negli ultimi anni in Svizzera è cresciuto un mercato privato, dove questo lavoro di care domiciliare viene delegato a donne dell’Europa dell’est, reclutate da agenzie spesso con pochi scrupoli. Vengono con un visto di tre mesi, poi escono dalla Svizzera e ritornano con rapide rotazioni. Queste donne vivono a domicilio e lavorano 24 ore al giorno. Il loro lavoro viene considerato meno costoso in rapporto a chi deve pagare una casa anziani medicalizzata: l’aspetto del costo è decisivo, perché altrimenti le famiglie del ceto medio non potrebbero permettersi un simile aiuto. Spesso queste famiglie devono versare più della metà del salario alle agenzie, di cui alcune proibiscono a queste badanti di rivelare alle famiglie che le ospitano il valore reale del loro salario.

 

Naturalmente queste badanti vengono da noi perché non hanno altre possibilità di lavoro e spesso tutta la loro famiglia dipende da quanto loro guadagnano qui. Alcune agenzie garantiscono un minimo di assicurazioni sociali, altre no. Se si dovessero rispettare le regole del diritto svizzero del lavoro, 24 ore di occupazione dovrebbero essere suddivise tra tre persone, ciò che finanziariamente nella maggior parte dei casi non è possibile. Spesso queste badanti hanno a casa genitori o figli, di cui sempre più frequentemente si occupano donne che provengono da paesi ancora più poveri. Come nel caso delle infermiere, abbiamo anche qui quindi un trasferimento transnazionale del lavoro di care, chiaramente basato sullo sfruttamento.

 

Queste badanti in generale non hanno una formazione specifica e spesso non parlano neanche la lingua di coloro di cui si occupano. Nelle famiglie con risorse finanziarie sufficienti si sta quindi sempre di più formando un settore con salari molto bassi, che è occupato esclusivamente da donne. Nelle famiglie svizzere che invece non hanno queste risorse finanziarie e dove tutte le persone adulte lavorano sta quindi aumentando il pericolo di un peggioramento delle condizioni in cui vivono persone che hanno bisogno di aiuto continuo, in quanto i servizi statali non possono garantire una copertura completa a domicilio. Questi servizi sovvenzionati si occupano quasi esclusivamente di attività di tipo infermieristico, ma non dei tipici lavori domestici.

 

La Dr. Sarah Schilliger, sociologa e docente all’Università di Basilea, che sta conducendo ricerche puntuali sull’attività di care in Svizzera, ha calcolato che le famiglie già ora devono coprire direttamente all’incirca il 60% dei costi delle cure croniche. È evidente che con l’invecchiamento della popolazione si sta venendo a creare una situazione di emergenza. Il problema del lavoro di care è stato uno dei temi dell’ultimo sciopero delle donne, anche se per intanto l’urgenza e l’estensione di questa problematica viene ancora sottovalutata. Anche noi femministe abbiamo ancora molto da fare e da discutere sul rapporto tra donne ed economia. Se l’iniqua ripartizione del lavoro non pagato tra uomini e donne dovesse continuare a svilupparsi in questo modo, ci vorranno almeno altri 250 anni prima che si arrivi ad una vera parità di genere (vedi SRG Podcast 01/20).

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