Le elezioni americane viste da Pechino

di Simone Pieranni, corrispondente da Pechino

 

Dopo gli ultimi due anni di sanzioni, dazi, scontri diplomatici e accuse da parte americana di essere responsabile della diffusione del virus, la Cina si appresta a osservare le elezioni americane all’interno di un contesto internazionale sempre più complicato.

Se è vero che la dottrina Trump ha permesso a Pechino di avanzare in alcune aree del mondo e all’interno di organizzazioni internazionali, è altrettanto vero che la guerra di Washington alla supremazia tecnologica in divenire di Pechino ha creato problemi alla potenza cinese, specie in Europa. La Cina di Xi Jinping, “sistemata” Hong Kong, si appresta a rilanciare il suo faraonico progetto della nuova via della seta e a ottenere contratti importanti per la propria azienda “campione” Huawei in materia di reti 5G. L’esito delle elezioni americane non dovrebbe cambiare l’approccio Usa nei confronti di Pechino e questo la dirigenza del Partito Comunista lo sa bene: sia democratici, sia repubblicani, infatti, vedono ormai la Cina come la rivale numero uno per gli Stati Uniti. Con stili e metodi diversi, dunque, Pechino si troverà a proseguire lo scontro iniziato tempo fa (fu Obama, ad esempio, il primo a mettere sotto inchiesta Huawei). Pechino non ha un “suo” candidato: sia Trump sia Biden, infatti, presentano incognite e percorsi conosciuti che, in questa fase pre-elettorale, a Pechino sembrano essere presi in esame, in attesa di capire su quali direttrici si muoverà la nuova guerra fredda 2.0.

 

Un sondaggio pubblicato dal quotidiano nazionalista cinese Global Times nel 2016, poco prima delle elezioni presidenziali americane, rivelò che la maggioranza dei cinesi avrebbe preferito la vittoria di Donald Trump anziché quella di Hillary Clinton. Questa constatazione accese un dibattito – insieme alla diffusione di leggende metropolitane secondo le quali i funzionari cinesi si erano attaccati al telefono per chiedere ai propri connazionali negli Usa notizie sul probabile esito della consultazione elettorale – che pareva procedere in due direzioni. Da un lato il sondaggio esprimeva il profondo disprezzo dei Cinesi nei confronti di Hillary Clinton (un’antipatia quasi pari a quella dimostrata contro l’ex segretario di Stato da tanti repubblicani), percepita come la politica americana più anti-cinese a causa delle sue reiterate critiche nei confronti di Pechino, soprattutto sul tema dei diritti umani. Il secondo aspetto messo in luce dal sondaggio era la diffidenza, quando non l’esplicita critica, nei confronti della democrazia americana tout court. A questo proposito, non pochi sui social cinesi avevano offerto la seguente lettura sul sondaggio online: i Cinesi avrebbero preferito la vittoria di Donald Trump proprio per dimostrare l’inefficienza della democrazia americana, contrapposta alla meritocrazia cinese. Il sottotesto sarebbe stato il seguente: Trump in Cina al potere non potrebbe arrivarci mai, perché nel Partito Comunista Cinese vige un sistema di selezione della classe dirigente “meritocratico”, mentre in democrazia chi ha più soldi (e non importa quanto sia abile nella capacità di gestire un paese) può vincere.

 

Proprio questo filone di ragionamento, percepito sia dai funzionari cinesi sia dai cosiddetti laobaixing (l’espressione in mandarino per indicare le “persone comuni”), nel corso dei quattro anni di presidenza di Donald Trump è diventato il leit motiv del nazionalismo cinese. Teso a mettere a confronto la meritocrazia cinese e la democrazia occidentale, lo stesso Global Times ha quasi sempre criticato apertamente Washington senza mai puntare eccessivamente il dito contro Trump, nonostante la determinazione della Casa Bianca di riattizzare il sentimento anti-cinese dell’elettorato repubblicano additando la Cina come la causa della diffusione del coronavirus (il “Chinese virus” ripetuto in più occasioni da Trump) o come la causa della povertà di ampie fasce di popolazione americana bianca, specie quella raccolta nei territori della Rust Belt.

 

Nei mesi estivi del 2020 il responsabile del Research Centre for Cyberspace Government della Fudan University scriveva proprio sul Global Times che “la campagna elettorale americana si è trasformata in uno spettacolo politico teso a dimostrare chi è più duro contro la Cina”. Questa opinione è stata condivisa per molto tempo da parte dei funzionari cinesi del Partito Comunista, in particolare dagli ambasciatori. Lo straordinario impegno sui social o attraverso articoli pubblicati su quotidiani locali da parte dei diplomatici cinesi ha costituito una delle novità nel rapporto ondivago tra Cina e Stati uniti. Gli strali di Trump contro Pechino, accusata di aver permesso la diffusione del contagio del coronavirus, infatti, sono arrivati al termine di due anni densi di scontri dialettici ed economici tra le due superpotenze. Washington – nell’intento di rallentare il progresso tecnologico cinese, specie relativo allo sviluppo delle reti 5G – ha cominciato la danza imponendo dazi sulle merci cinesi, con la scusa dell’eccessivo deficit nella bilancia commerciale; poi ha puntato direttamente Huawei (dopo Zte, scaricata anche da Pechino in quanto azienda statale) messa sotto accusa – pur senza prove – per la sua sospettata vicinanza al Partito Comunista (pur essendo un’azienda privata, come recita di ufficio la difesa cinese). Infine, Trump ha deciso di colpire le applicazioni e piattaforme cinesi facendo quanto la Cina fa da sempre, ovvero minacciando di vietarne l’utilizzo sul territorio americano, chiedendo inoltre ad un’azienda americana di acquisire TikTok, un’applicazione di videomessaggi made in China che spopola anche in Occidente. A corollario di questo confronto economico, si sono succeduti quelli di natura più diplomatica: la situazione tesa di Hong Kong e la repressione totale cinese nei confronti della minoranza uigura della regione nord-occidentale dello Xinjiang hanno portato un consenso bipartisan tra democratici e repubblicani americani nella condanna di Pechino e nella votazione di atti congressuali che hanno finito per sanzionare alcuni funzionari del Partito Comunista Cinese.

 

Durante tutto questo periodo si è assistito al proliferare di articoli e invettive da parte di diplomatici cinesi, riassunti nell’etichetta (cara ai media mainstream italiani e internazionali) di “Wolf Warriors”. In realtà il protagonismo dei diplomatici è da far rientrare all’interno di una strategia voluta da Xi Jinping, il presidente cinese: Xi, diventato numero uno della nomenklatura di Pechino nel 2012 come segretario del PCC e nel marzo del 2013 come Presidente della Repubblica popolare, ha contribuito a una postura internazionale più muscolare del paese, dando piena di libertà di parola ai diplomatici, quasi tutti appartenenti alla sua cricca. Questo processo è iniziato molto prima della diatriba tra Cina e Usa ed è partito dall’Africa, continente sul quale la Cina da tempo investe e sperimenta sui mercati locali i suoi prodotti (Huawei fece la stessa cosa in Sudamerica). Nel corso degli anni gli ambasciatori cinesi in Africa hanno risposto in modo più o meno veemente alle accuse di neocolonialismo, poi hanno passato il timone a rappresentanze diplomatiche più pesanti. I lupi però, di recente, sembrano essersi trasformati in agnelli, perché al culmine delle polemiche e delle accuse reciproche tra Cina e Stati Uniti, l’atteggiamento di questi rappresentanti di Pechino nei confronti delle elezioni americane è parso cambiare, mutando completamente l’ecosistema mediatico nazionale.

 

A segnare questo cambiamento è stato Cui Tiankai, ambasciatore cinese negli Stati Uniti: alla fine di luglio 2020 ha scritto un articolo su Politico, dal titolo “La Cina e gli Stati Uniti dovrebbero ripristinare la loro relazione” nel quale ha ricordato le parole di Nixon dopo il primo storico incontro con Deng Xiaoping nel 1979: “Non sono le nostre convinzioni comuni che ci hanno riuniti qui, ma i nostri interessi comuni e le nostre speranze comuni [...], la speranza che ognuno di noi ha di costruire un nuovo ordine mondiale in cui nazioni di persone con sistemi e valori diversi possono vivere insieme in pace, rispettandoci l’un l’altro mentre siamo in disaccordo l’uno con l’altro”. L’articolo di Cui Tiankai nel quale ripropone questa collaborazione nel rispetto delle proprie differenze è parso avere un destinatario principale, ovvero il candidato democratico alle elezioni americane Joe Biden. Eppure proprio Biden, quando aveva annunciato la sua candidatura, non aveva emozionato granché i cinesi, così come la nomina per la vicepresidenza di Kamala Harris che in precedenza si era espressa in favore dei manifestanti di Hong Kong. Dopo l’intervento di Cui su Politico, i media di Stato cinesi hanno cambiato il proprio atteggiamento con articoli di esplicita critica a Trump più che all’intero sistema democratico americano. Questo cambiamento “ufficiale”, però, non sembra avere attecchito tra tutti i funzionari, per alcuni motivi che ricalcano le vicende che portarono allo scetticismo nei confronti di Hillary Clinton.

 

Trump, pur nella sua imprevedibilità (caratteristica detestata dal Partito Comunista Cinese), permette a Pechino un’agibilità che era da ritenersi impensabile con Obama. Nonostante i dazi, le sanzioni e le sparate su Twitter, Donald Trump per la Cina ha significato la possibilità di presentarsi al resto del mondo come potenza responsabile, in favore del mercato globale e come potenziale guida dell’intera regione asiatica. Tutti elementi che sono risultati fondamentali per gli intenti di Xi Jinping, il cui progetto di Nuova via della seta mirava proprio a un nuovo protagonismo cinese. Oltretutto il protezionismo politico di Trump ha finito per fare arretrare gli Stati Uniti da ruoli importanti all’interno di organizzazioni internazionali, con il risultato di un avanzamento cinese in quegli stessi ambiti: l’esempio dell’Organizzazione mondiale della sanità è lì a dimostrarlo.

 

Inoltre la politica asiatica di Trump è parsa fin da subito assumere le sembianze di un immenso favore nei confronti di Pechino: stracciando la strategia “pivot to Asia” di Obama tesa a contenere la Cina e affossando la Transpacific partnership, Washington ha finito per gettare tra le braccia di Pechino anche paesi che storicamente non si possono certo annoverare tra gli alleati cinesi, come Giappone e Corea del Sud. Con Tokyo e Seul Trump ha fatto perfino peggio, lamentando di dover assicurare e pagare per la loro sicurezza, creando non poco scompiglio e nervosismi nelle leadership dei due paesi cui ha valso ben poco la “pace mediatica” con il leader nordcoreano Kim Jong-Un.

 

Infine c’è un aspetto da non sottovalutare e che di sicuro è tenuto a mente dalla leadership cinese: al contrario di Trump, Joe Biden potrebbe intraprendere la sua opera di contenimento nei confronti della Cina in modo più “educato” a parole, senza dubbio, ma al contrario dell’attuale amministrazione Usa potrebbe anche cercare sponde, ingaggiare un dialogo multilaterale contro Pechino con altre nazioni, specie quelle europee. Si tratterebbe di un’insidia non da poco per la Cina di Xi Jinping che fino ad oggi sembra aver sfruttato a proprio vantaggio non solo la sua crescita economica e tecnologica ma anche il modus operandi di Trump, non gradito da molte cancellerie europee. Le parole di Cui Tiankai, dunque, più che un’apertura a Biden vanno lette in un atteggiamento di attesa più cauto da parte di Pechino, nella speranza che un cambio alla Casa bianca possa permettere un’atmosfera meno tesa tra le due potenze mondiali. Le quali, al di là della retorica di entrambe le parti, sono a tal punto interconnesse da rendere quasi impossibile una rottura totale delle relazioni economiche e politiche.

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