STATI UNITI: SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI

di Franco Cavalli

 

Il numero di ottobre di «Le Monde Diplomatique» titola in prima pagina Gli Stati Uniti in preda alla follia, mentre ultimamente su uno dei maggiori quotidiani svizzeri si discuteva seriamente se la nazione americana sia già avviata sulla via del fascismo.

Sono due dei molteplici esempi che testimoniano l’apprensione con cui a livello internazionale si seguono gli ultimi sussulti della campagna elettorale statunitense. Effettivamente l’elezione del 3 novembre potrebbe essere epocale: non tanto perché Joe Biden sia un’alternativa entusiasmante (tutt’altro!), ma perché altri quattro anni di Donald Trump rappresenterebbero quasi sicuramente un reale pericolo un po’ per tutti. Sul fronte interno basterebbe pensare al suo sostegno sempre più smaccato ai movimenti supremazisti bianchi, anche a quelli violenti, o all’uso di squadracce paramilitari, come avvenuto a Portland ed altrove. Mentre la nuova guerra fredda che il presidente americano ha scatenato contro la Cina potrebbe facilmente surriscaldarsi.

 

Partiamo proprio da quest’ultimo aspetto. Se pensiamo che negli ultimi 30 anni il PIL cinese è aumentato di 30 volte e che attualmente l’app cinese Tik Tok è la più scaricata al mondo e che Huawei è ora il maggior venditore di telefoni, è facile capire perché gli USA hanno cominciato una guerra commerciale contro il gigante asiatico, che entro pochi anni potrebbe diventare leader mondiale anche nel settore delle tecnologie più innovative: ora Trump può perciò contare anche sull’appoggio della Silicon Valley e non solo, come nel passato, su quello delle industrie pesanti e petrolifere. A vacillare è quindi l’egemonia statunitense affermatasi dopo la Seconda guerra mondiale, anche grazie al fatto che gli USA erano stati l’unica potenza ad essere uscita da quella spaventosa deflagrazione con perdite ridotte (300.000 morti a fronte dei 27 milioni dell’Unione Sovietica) e con un apparato produttivo intatto.

 

Oggi è quindi legittimo, e lo ha fatto recentemente anche l’avvocato Tettamanti (Il declino degli Stati Uniti, CdT 9 ottobre) pensare che siamo veramente alla fine del quarto ciclo egemonico nella storia del capitalismo, come aveva già ben descritto Giovanni Arrighi, e cioè di quello statunitense, dopo quelli genovese-spagnolo, olandese e inglese. Basta difatti pensare al disastrato sistema scolastico pubblico o alle grosse deficienze infrastrutturali per capire come l’unico vero punto di forza che rimane agli USA è la strapotenza militare, situazione questa pericolosa e che nella storia ha ripetutamente condotto alla cosiddetta trappola di Tucidide: cioè al sentirsi obbligati ad eliminare con la forza bruta chi sta minacciando la tua egemonia ormai fatiscente.

 

Ma altrettanto preoccupante è la situazione sul fronte interno, come dimostrano diversi recenti episodi premonitori di una possibile guerra civile, e questo in una società da sempre parecchio violenta: non per niente gli USA con quasi 3 milioni di prigionieri detengono il record mondiale per la percentuale della popolazione finita dietro le sbarre. Ciò non sorprende più di quel tanto, se pensiamo che gran parte dell’accumulazione primaria della ricchezza nazionale è stata ottenuta con la schiavitù e che il capitalismo statunitense è di vari gradi più duro di quello di altri Paesi: basterebbe pensare a quel 15-20% della popolazione che non ha nessuna copertura assicurativa sanitaria, o al fatto che non ci sia l’ombra di una cassa disoccupazione, in un sistema dove licenziare qualcuno è più facile che accendersi una sigaretta in pubblico. A tutto ciò si aggiunge ora l’impoverimento progressivo di buona parte del ceto medio e l’aumento esplosivo delle disuguaglianze sociali, tendenze queste che la pandemia sta ancora fortemente incrementando.

 

La storia del XX secolo ci insegna che questo è l’humus sociale su cui è cresciuto il fascismo, termine questo usato talora a sproposito, ma che però qui si addice a quanto avviene o potrebbe capitare oggi. È stata soprattutto la Scuola di Francoforte, ed in particolare Adorno e Horkheimer, a studiare a fondo il sempre possibile scivolamento, in momenti di grave crisi sociale, dell’ideologia politica liberale verso il fascismo, soprattutto quando il grande capitale decide di abbandonare ogni parvenza democratica. Fascismo che, sempre per i succitati pensatori, non implica alcun reale esercizio della ragione, ma solo l’applicazione della forza bruta e la manipolazione della maggioranza a beneficio di pochi. E, per tornare all’oggi, in un approfondito trattato dedicato all’irrazionalità (appena apparso in italiano per Ponte alle Grazie) il filosofo statunitense Justin Smith dimostra come con Trump l’irrazionalismo abbia ormai raggiunto livelli che non hanno precedenti nella storia recente.

 

Ed è qui che arriviamo al prossimo 3 novembre. Trump si è più volte rifiutato di garantire che accetterà un’eventuale sconfitta e questo in un sistema elettorale che sfavorisce platealmente i democratici (ricordiamoci che l’attuale presidente ottenne tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton), anche per la miriade di ostacoli con i quali si cerca di tener lontani dalle urne i meno abbienti. Basti pensare che in alcuni Stati per potersi iscrivere a votare ci vuole addirittura il passaporto, oggetto troppo caro per molti americani poveri. Ricordiamoci poi che nel 2000 Bush junior praticamente rubò, grazie alla decisione della maggioranza repubblicana della Corte suprema, la vittoria ad Al Gore, che, da uomo placido e ben consapevole di cosa sarebbe potuto succedere, si spese a fondo per convincere i democratici ad accettare l’iniqua decisione. Non è per niente escluso che uno scenario simile si ripeta anche questa volta: non per nulla Trump si è dato molto da fare in questi anni per nominare centinaia di giudici repubblicani e soprattutto per garantirsi una solida maggioranza alla Corte suprema.

 

Visto quanto è capitato negli ultimi mesi e la predominanza sempre più marcata di giovani radicali nel Partito democratico, mi pare però escluso che questa volta un simile furto possa essere accettato, al di là di quello che Joe Biden potrebbe dire o fare. Ed allora l’eventualità di una guerra civile diventerebbe una possibilità tutt’altro che peregrina.

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