Russia, ago della bilancia

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

Nello scontro politico-commerciale tra Cina e Stati Uniti, la Russia di Putin potrebbe giocare un ruolo fondamentale, se non decisivo.

Mosca almeno da un decennio – ovvero dall’inizio della guerra fredda 2.0 che si può far coincidere con la guerra in Georgia – sta cercando di costituire un’alleanza politica con Pechino basata su solide fondamenta economiche. La Cina dal 2018 è diventata – superando la Germania – il primo partner commerciale della Russia con oltre 100 miliardi di dollari di interscambio. Di questo interscambio oltre un quarto del totale è rappresentato dall’importazione cinese di idrocarburi (è dello scorso anno l’inaugurazione della pipeline “Forza della Siberia”) e per quasi un quinto di armamenti (in primo luogo i caccia Su-35, il sistema di difesa antiaerea S-400 e gli elicotteri Ka-32A11VS e Kamov). A cui si devono ovviamente aggiungere le grandi aspettative nel settore delle infrastrutture legate al progetto della Nuova Via della Seta. Al riguardo, il governo russo ha mostrato anzi di voler accelerare su questo terreno visto che a causa dell’atavica debolezza finanziaria e delle sanzioni occidentali ha una tremenda necessità di avere a disposizione capitali freschi. La Cina ha già messo sul piatto 22 miliardi di dollari, i quali però bastano alla Russia solo per colmare i mancati investimenti dell’Europa seguiti alla crisi in Ucraina del 2014.

 

Sergio Romano, in un’intervista concessa a chi scrive per il Manifesto, sostiene che un’alleanza strategica tra Mosca e Pechino “sta nell’ordine delle cose. Il pessimo rapporto che ha Pechino con Washington nel futuro non è destinato a migliorare. E neppure l’eventuale sconfitta di Trump credo cambierà qualcosa in questo senso. Storicamente gli Usa hanno sempre temuto che la Cina gli sfuggisse di mano”. Tuttavia resta difficile che tale asse strategico possa determinarsi oggi, quando ciò non fu possibile ieri, all’epoca in cui i due paesi erano cementati dallo stesso orizzonte ideologico. Russia e Cina hanno culture di politica estera molto distanti tra di loro. All’insegna della scuola realista classica quella russa, attendista-confuciana quella cinese. Non è un caso che la Cina stia cercando di non entrare – come vorrebbero gli Usa – nella trattativa sul controllo delle armi nucleari che da tempo le due vecchie potenze della Guerra Fredda stanno faticosamente portando avanti.

 

Il soft power cinese è rimasto anche abbastanza tiepido di fronte alle proposte russe di approfondire la collaborazione tra i due eserciti e lo stesso progetto di riforma dell’Onu sostenuta dalla Russia per trovare sostegno tra potenze in ascesa come India e Brasile non ha scaldato molto i cuori di Pechino, che si tiene stretta la sua posizione strategica di membro permanente al Consiglio di sicurezza. Anche durante la crisi politica in Venezuela, quando gli Stati Uniti hanno cercato il colpo di Stato portando al potere Juan Guaidó, il Dragone ha preferito lavorare per vie interne piuttosto che alzare la voce e spedire in loco i suoi consiglieri militari come fatto dalla diplomazia russa – e questo sebbene gli investimenti economici cinesi nel paese siano assai più significativi di quelli russi. Lo stesso tentativo dei due paesi di “dedollarizzare” i loro interscambi è rimasto per ora poco più di un auspicio: secondo la banca BTV di Mosca l’interscambio tra i due paesi avviene ancora per il 75,8% in dollari. La Cina resta uno dei grandi finanziatori del debito pubblico Usa e nella pancia delle sue banche ci sono grandi quantità non solo di obbligazioni americane ma anche di biglietti verdi. Più che in renminbi e rubli è cresciuta tra i due paesi la quota dell’interscambio in euro, diventata nel 2018 il 7,3% del totale degli interscambi.

 

Ma forse ciò che impedisce di pensare seriamente a una partnership di lunga lena tra Cina e Russia è l’evidente tentativo in corso da parte cinese di espandere la sua influenza sulla Siberia orientale. Il business cinese (spesso di dubbia moralità) da tempo ha massicciamente investito nella zona di Irkutsk (sfruttamento delle foreste e immobili) e a Vladivostok (cantieristica), una dinamica che inquieta Mosca e che sta già producendo incrinature degli equilibri dei poteri regionali oltre che tensioni sociali con lo sviluppo di razzismi e comportamenti xenofobi contro i “musi gialli” tra i residenti russi oltre gli Urali. Ormai da tre mesi sono in corso nella provincia di Khabarovsk – non lontano da Vladivostok – grandi manifestazioni popolari in seguito all’arresto con l’accusa di omicidio del governatore locale Sergei Furgal. Quella dinamica e l’ampiezza della protesta rimanda, al di là della vicenda di cronaca, ad evidenti spinte secessionistiche presenti un po’ in tutta la Siberia. Alimentate probabilmente dall’intervento sottotraccia non solo dei servizi occidentali ma – si sussurra – anche di quelli cinesi e giapponesi.

 

Il rinnovato interesse della Cina per quell’area è dimostrato dall’atteggiamento assunto nei confronti delle recenti manifestazioni organizzate dalle amministrazioni russe per i 160 anni della fondazione di Vladivostok, alle quali le autorità cinesi non hanno inteso partecipare sostenendo che in realtà si trattò di “un’annessione”. L’odierno territorio del Primorsky Krai, la cui capitale è Vladivostok, era un tempo parte della patria della Manciuria dei Qing, ma fu annessa dall’impero zarista nel 1860 in seguito alla sconfitta della Cina per mano di Gran Bretagna e Francia nella seconda guerra dell’oppio. Una presa di posizione bizzarra, quella del governo cinese, e per adesso non foriera di rivendicazioni territoriali ma indicativa di quali tendenze nazionaliste – e potenzialmente anti-russe – allignano a Pechino.

 

Sul lato opposto, i rapporti del Cremlino con la Casa Bianca sono da tempo al minimo storico, forse perfino peggiori di quelli degli anni Cinquanta del secolo scorso. Gli Usa hanno seppellito la Russia sotto una coltre di dazi e di sanzioni da cui è difficile pensare che si potrà tornare indietro. E l’interscambio tra i due paesi è ridotto a 12 miliardi di dollari (nei primi anni 2000 era quasi il quadruplo). Dopo le grandi aspettative, al momento della elezione di Donald Trump, di un rilancio dei rapporti tra i due paesi, i gabinetti russo e americano non sono mai riusciti a trovare una lingua comune. Tuttavia in politica, mai dire mai. Una svolta di 180 gradi della politica estera russa è difficile da immaginare vista la proverbiale cautela di Putin, ma la volontà di isolare la Cina da parte americana potrebbe determinare in futuro una ripresa del dialogo tra le due potenze

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