L’egemonia americana alla prova della crescita cinese

di Fabrizio Tonello

 

Che gli Stati Uniti dovessero guidare il mondo è stato dato per scontato prima che esistesse la capitale Washington, prima della stessa fondazione della repubblica, fin dal momento nel 1620 in cui i puritani misero piede sulla costa di ciò che venne più tardi battezzato Massachusetts, rischiando di morire tutti di fame e freddo nel primo inverno passato laggiù.

Non ci fu mai, nelle 13 colonie e poi nei 13 stati, l’idea di starsene tranquilli nella ricca striscia di terra fra l’Atlantico e la catena montuosa degli Appalachi: fin dalle origini l’espansione è stata al centro dell’identità nazionale americana. Nel 1803, Thomas Jefferson scriveva che gli Stati Uniti non solo avrebbero conquistato tutta la parte Nord del continente ma immaginava anche l’acquisizione dell’America centrale e meridionale1.

 

L’espansione continentale si concluse a fine Ottocento mentre la diffidenza verso popolazioni non anglofone e cattoliche (“papiste” nel linguaggio dell’epoca) limitò l’espansione oltreoceano alle sole Hawaii e a qualche isola sperduta: alle Filippine, conquistate nel 1899 fu data l’indipendenza nel 1946. Nel “cortile di casa” caraibico gli Stati Uniti si limitarono a Puerto Rico (che ancora oggi non è uno Stato), alla zona del canale di Panama e a un protettorato nei confronti di Cuba durato fino al 1959.

 

Il ciclo egemonico2 degli Stati Uniti iniziato nel 1945 era basato su una incontestabile superiorità economico-finanziaria sul resto del pianeta (all’epoca gli USA rappresentavano oltre il 40% del prodotto lordo mondiale) e su una superiorità militare che trovava il suo limite solo nella presenza di un’altra potenza nucleare, l’URSS. Con il 1991 e l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica arriva il “momento unipolare” di Washington: per esempio, il diplomatico Richard Haass, proponeva questa analisi della situazione: «Nella storia, nessun paese ha mai posseduto una forza maggiore degli Stati Uniti di oggi, e pochi paesi o imperi hanno goduto di tali vantaggi rispetto ai loro contemporanei. Gli Stati Uniti ora spendono grosso modo 500 miliardi di dollari l’anno per la difesa, più di Cina, Russia, India, Giappone e tutta l’Europa messa insieme»3.

 

Nell’establishment diplomatico-militare degli Stati Uniti si diffuse la certezza che la fine della guerra fredda preannunciasse una nuova era in cui non ci sarebbero state guerre tra le grandi potenze e in cui concetti come l’equilibrio tra le potenze sarebbero diventati irrilevanti. Al contrario, ci si aspettava una maggiore cooperazione tra gli stati per molti anni a venire. Una cooperazione, naturalmente, basata sull’indiscusso predominio degli Stati Uniti sia dal punto di vista del cosiddetto hard power (economia, capacità militari) che da quello del soft power (ideologia dominante)4. In realtà, come ha sottolineato David Calleo della Johns Hopkins University, la politica internazionale era più complessa e pluralistica di quanto si pensasse a Washington già prima del 1989 5.

 

Se guardiamo alla Cina, notiamo che nel 1989 il PIL cinese era di soli 461 miliardi di dollari, saliti a 1’344 nel 2001 e a 13’407 nel 2018. Questo significa che nell’arco di trent’anni l’economia cinese è cresciuta di quasi 30 volte, uno sviluppo frenetico che aveva suscitato preoccupazione negli ambienti accademici americani già nel 2003. All’epoca John Mearsheimer, per esempio, scriveva: “Gli Stati Uniti hanno un profondo interesse a vedere la crescita economica cinese rallentare considerevolmente nei prossimi anni. Tale risultato potrebbe non essere positivo per la prosperità americana, tanto meno per la prosperità globale, ma sarebbe positivo per la sicurezza americana, che è ciò che conta di più”.

 

Donald Trump ha messo questa analisi al centro della sua azione da presidente, come del resto aveva annunciato nel suo discorso di insediamento, il 20 gennaio 2017: “Per molti decenni abbiamo arricchito le industrie straniere a spese dell’industria americana. (…) Abbiamo reso ricchi altri Paesi mentre la ricchezza, la forza e la fiducia del nostro paese scomparivano all’orizzonte. (…) Da questo momento in poi, sarà America First!”6. La logica conseguenza di questo approccio è stata la guerra commerciale con la Cina, di cui si parla più ampiamente in un altro articolo di questo numero, che tuttavia non sembra aver dato risultati positivi per l’economia americana, al contrario: il governo federale è stato costretto ad aumentare a dismisura i sussidi all’agricoltura per compensare i contadini o, meglio, i giganti dell’agroalimentare, delle perdite dovute alla parziale chiusura del mercato cinese.

 

Trump rappresenta in versione macho e aggiornata una scuola di pensiero che ha radici addirittura negli anni Cinquanta: il celebre senatore repubblicano Joseph McCarthy iniziò la propria carriera politica con lo slogan: “Who lost China?”, la sua domanda retorica rivolta ai democratici e alla burocrazia del Dipartimento di stato. Se c’è stata una lunga fase in cui la Cina era una risorsa fondamentale per i profitti delle aziende e per i consumi della popolazione, oggi sembra esserci un sentimento diffuso, e politicamente bipartisan, di ostilità verso la Cina, basato sull’angoscia per il declino degli Stati Uniti.

 

In realtà, l’idea di una fine prossima del secolo americano esisteva già negli anni Ottanta, quando le librerie erano invase di volumi sulla crescita apparentemente irresistibile del Giappone, “destinato” a sorpassare gli Stati Uniti come superpotenza economica. Alla vigilia della distruzione del Muro, nel 1987, il best-seller fu The Rise and Fall of Great Powers, dove lo storico Paul Kennedy sosteneva che le grandi potenze finiscono per cadere vittime di un imperial overstretch, cioè dell’eccesso di spese militari rispetto alla capacità dell’economia di finanziarle e, paradossalmente, l’ammonimento era rivolto agli Stati Uniti, non all’URSS.

 

Al contrario, il Giappone dopo poco sarebbe sprofondato in una stagnazione ventennale mentre l’economia americana avrebbe sì attraversato violente turbolenze nel 1991-92, nel 2000 e soprattutto nel 2008, però sarebbe riuscita a convivere sia con le spese militari all’interno che con la concorrenza asiatica all’estero. Oggi è quindi legittimo chiedersi se sia veramente in vista la fine oppure no del quarto ciclo egemonico nella storia del capitalismo individuato da Giovanni Arrighi dopo quelli genovese-spagnolo, quello olandese e quello inglese.

 

Arrighi, prima di morire, dava una risposta decisamente positiva a questa domanda benché lui stesso fosse incerto sul futuro del candidato principale al ruolo di nuovo paese dominante dopo gli Stati Uniti, e indicasse come possibile una prolungata fase di “caos sistemico”, una visione che oggi ci appare profetica se guardiamo a un problema più importante delle performance economiche e delle risorse militari: le capacità di decisione politica.

 

La Cina da questo punto di vista ha problemi meno visibili ma non meno gravi di quelli degli Stati Uniti. Partiamo dal fatto che nel 2018 Xi Jinping decise di abolire i limiti del mandato presidenziale, segnalando la sua intenzione di rimanere al potere a tempo indeterminato. Come ha rilevato Minxin Pei, Xi “ha compiuto massicce epurazioni, cacciando importanti funzionari di partito con il pretesto di un’azione anticorruzione. Inoltre, ha represso le proteste a Hong Kong, arrestato centinaia di avvocati e attivisti per i diritti umani e imposto la più rigorosa censura dei media nell’era post-Mao. Il suo governo ha costruito campi di ‘rieducazione’ nello Xinjiang, dove ha incarcerato più di un milione di uiguri, kazaki e altre minoranze musulmane. E ha centralizzato il processo decisionale economico e politico, riversando le risorse del governo in imprese statali e perfezionando le sue tecnologie di sorveglianza. Eppure, tutte insieme, queste misure hanno reso il PCC più debole: la crescita delle imprese statali distorce l’economia, e la sorveglianza alimenta la resistenza. La diffusione del nuovo coronavirus non ha fatto altro che aggravare l’insoddisfazione del popolo cinese nei confronti del governo”7.

 

Ovviamente, la repressione a Hong Kong e la radicalizzazione della popolazione dell’ex colonia britannica in senso anti-cinese non faciliteranno certo il tentativo della Cina di mantenere buoni rapporti con i propri vicini o con gli altri paesi dove ha interessi economici e politici, un elemento chiave per qualsiasi regime, tanto più se di ambizioni mondiali.

 

Ancora più importante è il fatto che i regimi autocratici sono intrinsecamente poco efficienti dal punto di vista decisionale. Lo studioso inglese Archie Brown ha analizzato i cosiddetti leader forti, giungendo alla conclusione che nel governare sono un danno e non un vantaggio. Prima di tutto, tendono a ignorare le conoscenze degli esperti nella materia di cui si discute e a fidarsi del proprio “istinto”. In secondo luogo, evitano le discussioni aperte con colleghi e funzionari che possano sollevare obiezioni e proporre approcci differenti. In terzo luogo, sono spesso preda di un narcisismo che li fa guardare al mondo come un palcoscenico dove possono agire a loro piacimento anziché come un luogo dove ci sono problemi complessi da risolvere in modo pragmatico. Un perfetto ritratto di Trump ma anche di Xi Jinping.

 

Il Coronavirus ha mostrato che le autorità locali di Wuhan, l’epicentro dell’epidemia, hanno nascosto informazioni critiche al pubblico anche dopo che i medici avevano dato l’allarme e una delle probabili ragioni per cui Pechino non è riuscita ad agire in modo energico ed efficiente per contenere il Covid-19 fin dall’inizio è che poche decisioni cruciali possono essere prese senza l’approvazione diretta di Xi. Il Coronavirus ha mostrato che un uomo forte che monopolizza il processo decisionale può essere politicamente vulnerabile durante una crisi di questo tipo.

 

Da un lato abbiamo quindi gli Stati Uniti come “Superpotenza solitaria senza vero potere, un leader del mondo che nessuno segue e pochi rispettano, una nazione pericolosamente alla deriva nel mezzo di un caos globale che non può controllare”8. Dall’altro abbiamo una Cina ambiziosa ma più fragile di quanto appaia, sia sul piano economico che su quello politico.

 

Naturalmente è possibile che già il prossimo 3 novembre gli Stati Uniti precipitino nel caos a causa della sciagurata scelta di Trump di delegittimare preventivamente le elezioni col pretesto di inesistenti brogli nel voto per posta. Se ciò non accadrà e l’attuale presidente verrà rieletto è probabile che il suo approccio incoerente e conflittuale verso la Cina continui, aumentando le tensioni che potrebbero sfociare in una nuova guerra fredda (anche Xi potrebbe avere interesse a soffiare sul fuoco del nazionalismo per rafforzare il suo potere).

 

Se invece verrà eletto Joe Biden ci potrebbe essere un ritorno al multilaterialismo di Obama e al dialogo con Pechino, come molti auspicano nell’establishment diplomatico di Washington9. Ma si tratta di una semplice possibilità: il complesso militare-industriale degli Stati Uniti è ben lungi dal rassegnarsi a un relativo declino, a un atterraggio morbido, a un posto comodo nel mondo mentre la Cina si rafforza.

 

In ogni caso, non dovremmo leggere le pagine di Arrighi in modo dogmatico e meccanicistico: il capitalismo (quello americano in particolare) è caratterizzato essenzialmente dalla sua plasticità, dalla sua capacità di adattamento, dalla sua ricerca continua di nuove soluzioni, di nuovi campi d’azione, di nuovi profitti. Può darsi che sia in declino ma, tra il 2010 e il 2020, la sua percentuale del prodotto lordo mondiale è salita dal 23% al 25%. Non sappiamo cosa accadrà con il Coronavirus ma la competizione tra Stati Uniti e Cina, nei prossimi anni, avverrà più sul terreno della tenuta dei rispettivi regimi politici che su quello della crescita economica.

 

 

 

1 Naturalmente, la bibliografia su questo tema è sconfinata: qui ci limiteremo a citare Ernest Lee Tuveson, Redeemer Nation, University of Chicago Press, 1968; Anders Stephanson, Destino manifesto, Feltrinelli, 1995.

 

2 Per il concetto di “ciclo egemonico” si vedano Giovanni Arrighi, The Long Twentieth Century, Verso, 1994 e Adam Smith in Beijing, Verso, 2007.

 

3 Richard Haass, The Opportunity. America’s Moment to Alter History’s Course, Public Affairs, 2005, p. 7.

 

4 Fabrizio Tonello, “Gli Stati Uniti a trent’anni dall’89”, Micromega, n. 6, 2019.

 

5 David Calleo, Follies of Power. America’s Unipolar Fantasy, Cambridge University Press, 2009.

 

6 Donald Trump, “The Inaugural Address”, url: https://www.whitehouse.gov/briefings-state ments/the-inaugural-address/, consultato il 26 settembre 2020.

 

7 Minxin Pei, “China’s Coming Upheaval: Competition, the Coronavirus, and the Weakness of Xi Jinping”, Foreign Affairs, vol. 99, n. 3, 2020.

 

8 Immanuel Wallerstein, The Decline of American Power, The New Press, 2003.

 

9 Si veda, per esempio, James Goldgeir e Bruce Jentleson, “The United States Is Not Entitled to Lead the World”, Foreign Affairs on line, 25 Settembre 2020.

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