Dopo la pandemia, avanti verso una società del Care

di Franco Cavalli

 

Storicamente, le pandemie hanno spesso scatenato dei cambiamenti molto profondi nelle società. 

 

 Si pensi per esempio alla peste bubbonica del XIV secolo (quella descritta da Boccaccio nel Decameron), che segnò la fine di molte delle semplicistiche credenze soprattutto religiose del Medioevo, aprendo le porte a quell’enorme cambiamento che andrà poi sotto il termine di Rinascimento. Come andrà questa volta?

 

Ormai da mesi, sulla stampa si discute se dopo le devastazioni provocate dal coronavirus si tornerà alla stessa “normalità” di prima, si cerca di identificare la società verso la quale ci stiamo indirizzando e si fanno grandi progetti per il mondo a venire. Eccezion fatta per i detentori del potere politico ed economico e i loro lacchè nei media, molti si augurano che la società del futuro possa essere migliore di quella che si annunciava prima dello scoppio della pandemia, caratterizzata dall’aggravarsi della crisi climatica, dall’esplosione delle disuguaglianze, da un pauroso restringimento degli spazi democratici e dallo scollamento sempre più evidente tra economia reale e mercati finanziari. Quest’ultimo punto è oggi più evidente che mai, con le borse che festeggiano risultati da record mentre disoccupazione e povertà esplodono a livello planetario a causa della pandemia.

 

È evidente che tornare alla “normalità” di prima non è un’opzione valida, se anche fosse possibile. Purtroppo anche molte delle speculazioni che si sono sentite sin qui sulla “società del futuro” non sono meno problematiche: i piani astratti e completamente slegati dalla realtà abbondano, e non ce ne faremo un granché. Ma c’è anche una soluzione promettente: costruire una società del Care.

 

Cosa s’intende quando si parla di società del Care? Purtroppo nella maggior parte delle lingue, compreso l’italiano, non c’è un termine equivalente per tradurre l’espressione inglese “Care”, tant’è vero che viene ormai usata in molti idiomi. Con Care si intendono tutte quelle attività con cui una o più persone aiutano altri esseri umani a vivere o a sopravvivere. Queste attività vanno quindi da tutto il lavoro domestico alla cura dei figli, dalle culle e gli asili infantili alle scuole di ogni genere, dalle tante forme di volontariato alla cura degli anziani e degli ammalati. Il termine va quindi ben al di là del lavoro effettuato nelle strutture sanitarie. Evidentemente quindi il termine raggruppa sia lavori retribuiti (nelle scuole, negli ospedali, nelle case anziani, eccetera) che tutta l’enorme massa di attività non retribuite.

 

In base agli ultimi dati disponibili dell’Ufficio Federale di Statistica, si è calcolato che per il 2016 le ore di lavoro (per persone tra i 15 e i 64 anni) non retribuite in Svizzera erano in quell’anno quasi 9 miliardi, mentre quelle retribuite arrivavano a poco meno di 8 miliardi. Sommando i due tipi di attività nello stesso anno, circa il 34% andava a carico del settore privato, il 18% a strutture statali o parastatali mentre ben il 48% veniva esplicato in strutture famigliari, nel senso più largo della parola. Questi dati permettono di trarre due conclusioni essenziali. Innanzitutto, le strutture private riuniscono solo un terzo delle ore lavorative, sebbene nella narrazione ufficiale siano presentate come dominanti. Ma soprattutto, a dominare è il lavoro “domiciliare” non retribuito, che per più di due terzi ricade sulle spalle di donne. A dominare quindi è tutt’ora quella che Marx definiva come attività riproduttiva della forza lavoro.

 

Un’altra caratteristica di tutte queste attività è che, perlomeno a norma di buon senso, non sono comprimibili all’interno della logica di mercato: quando si cerca di obbligare alcuni di questi settori a seguire i dettami del mercato, capitano invariabilmente dei disastri. Pensiamo a cosa è capitato negli Stati Uniti, dove la privatizzazione massima del sistema sanitario ha portato a dei costi della salute ben maggiori rispetto ad altri paesi sviluppati e spesso con risultati decisamente peggiori. Per non parlare poi della scuola pubblica americana, che di fronte alla concorrenza spietata degli istituti privati è ormai ridotta in condizioni pietose.

 

Ma anche qui da noi l’avanzata privatizzazione delle strutture sanitarie (ne parliamo in un altro articolo di questo Quaderno, in relazione alle ultime proposte del Consigliere federale Berset) ha creato molti più problemi di quanti ne abbia risolti. Come provato dall’evoluzione degli ultimi anni, le privatizzazioni in questi settori non sono state fatte – come si è cercato di fare intendere alla gente – per diminuire i costi o migliorare la qualità del prodotto, ma bensì per aprire allo sfruttamento del capitale anche questi settori, che fino a quel momento gli erano sfuggiti.

Per tornare al Care, mi viene in mente un esempio, che mi è stato recentemente raccontato e che nella sua semplicità dimostra forse meglio di molti ragionamenti di cosa stiamo parlando. Un infermiere, scontento del lavoro in un primo ospedale, dove erano state imposte strette regole manageriali tipo “catena di montaggio”, se n’è andato in un altro ospedale, dove il personale infermieristico aveva molte più libertà e responsabilità nonché tempo a disposizione per i pazienti. Nella nuova struttura, in occasione di un giro serale, si accorse che un paziente aveva un polso molto alto. Si sedette accanto a lui, aprì la finestra e cominciò a parlargli. Il paziente gli parlò di tutta una serie di problemi famigliari che aveva e gli raccontò che durante il pomeriggio il suo vicino di letto aveva avuto tutta una serie di visite molto rumorose ed invadenti, che l’avevano disturbato ed eccitato. Dopo venti minuti di colloquio, il polso si era normalizzato. L’infermiere mi aveva anche detto che nel primo ospedale sicuramente avrebbe dovuto subito chiamare il medico, il quale molto probabilmente avrebbe ordinato tutta una serie di esami che avrebbero aumentato la produzione dell’ospedale ma non il benessere del paziente.

 

Al di là dei problemi evidenti del sistema di gestione attuale del mondo del Care, come possiamo realizzare una società del Care? Come sempre quando si parla di strutture sociali, è più facile fare la diagnosi che trovare delle soluzioni. Qui posso solo schizzare qualche pista.

 

Prima di tutto, come ha proposto recentemente la Prima Ministra finlandese Sanna Marin, grazie ai continui miglioramenti tecnologici e della produttività, saremo in grado ben presto di ridurre in modo importante il tempo di lavoro a perlomeno non più di 6 ore al giorno. Questo, assieme ad una serie di miglioramenti nei trasporti e nell’organizzazione delle produzioni di prossimità, libererebbe molte ore dedicabili ad attività del Care. Fondamentale è poi riprendere il discorso di un reddito minimo garantito, non solo per risolvere la situazione in continuo peggioramento di coloro che hanno dei lavori precari, ma soprattutto come mezzo fondamentale per ricompensare gran parte del lavoro sin qui non retribuito, fatto soprattutto dalle donne. Questo potrebbe per esempio essere finanziato dalle risorse che verrebbero generate da un sistema fiscale basato sulla microimposta, iniziativa sulla quale è in corso una raccolta firme.

 

La pandemia ci ha poi insegnato che alla base del funzionamento della nostra società stanno tutti quei mestieri cosiddetti essenziali che ci hanno permesso di sopravvivere durante il lockdown. Questi lavori sono proprio quelli che vengono meno retribuiti e che hanno quindi uno status sociale che attira meno le nuove generazioni. Tutto questo deve essere fondamentalmente capovolto. La situazione del personale docente ed infermieristico, in particolare, deve essere di molto migliorata, non fosse altro – pensando al settore delle cure per le malattie croniche e degli anziani – a causa del progressivo invecchiamento della popolazione. Le badanti non possono essere la soluzione, sia perché sono solo pochi a potersele permettere, ma anche perché, come è il caso anche dei medici e delle infermiere straniere, non possiamo continuare a vivere sulle spalle degli altri paesi.

A queste tematiche, soprattutto a Nord della Alpi, sono stati dedicati molti manifesti ed articoli ben documentati1 2 3. Beat Ringger e Cédric Wermuth hanno addirittura pubblicato in tempo record un libro4 che propone di centrare la società del futuro sul servizio pubblico (la “Service Public Revolution” del titolo) allargando questo termine anche a settori come la produzione di farmaci essenziali e buona parte delle attività bancarie, sin qui strettamente riservate al profitto privato. Ma ritorneremo con maggior precisione sull’argomento nel prossimo numero di questi Quaderni, con un’intervista ad uno degli autori.

 

Si tratta quindi di porre fine al delirio neoliberale che sta riducendo a semplice merce anche l’esistenza umana ed iniziare a pianificare una società che ruoti attorno alla soddisfazione dei bisogni fondamentali delle persone umane. In altre parole, una società del Care.

 

 

 

 

 

1 M. L. Barben, D. Baumgartner, G. Belz et al., “Plädoyer für eine Erneuerung des Gesellschaftsvertrags – lokal und global Perspektive Care-Gesellschaft”, Denknetz e WOZ, 14.5.2020.

2 M. Madörin, “Die Wirtschaft feministisch denken – Zu den Schwierigkeiten, unbezahlte Arbeit makroökonomisch zu verstehen”, Widerspruch 74, p. 175-185.

3 L. Gulino e L. Hässig, “Das Care-Manifest – für eine andere Wirtschaftspolitik!”, Widerspruch 74, p. 167-174.

4 B. Ringger e C. Wermuth, Die Service Public Revolution. Corona, Klima, Kapitalismus – eine Antwort auf die Krisen unserer Zeit, Rotpunktverlag, 2020.

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