La borsa o la vita

di Beppe Savary-Borioli

 

La seconda ondata di Covid-19 è arrivata da tempo anche in Svizzera, come previsto dagli esperti che avevano ripetutamente messo in guardia sia la popolazione che le autorità politiche.

L’urto è stato più forte del previsto: nel momento peggiore, i tassi di infezione hanno superato le percentuali degli USA e dei paesi europei, gli ospedali e i reparti di terapia intensiva sono giunti ai limiti delle loro capacità e i tassi di mortalità si sono situati in cima alle classifiche a livello mondiale. Senza dimenticare che isolamento e quarantena hanno colpito un gran numero di persone, con tutte le conseguenze del caso sulle catene d’approvvigionamento e sull’insieme dell’economia.

 

Come siamo arrivati a questa situazione? Durante la prima ondata, gran parte della Svizzera tedesca aveva sofferto poco e la popolazione aveva avuto la percezione che il Covid-19 fosse una malattia che colpiva soprattutto gli altri: cinesi, ticinesi e “Welsche”. Tanto che le misure più severe richieste dal governo ticinese al Consiglio federale nel pieno di quella situazione drammatica non vennero capite, né tantomeno apprezzate. Fu solo con parecchio ritardo che il governo federale decretò il lockdown per contenere l’evoluzione dei contagi e proteggere gli ospedali da un possibile collasso. Come ci si poteva aspettare, le forti pressioni da parte di Economiesuisse, dell’USAM, di HotellerieSuisse e dei partiti loro alleati per limitare queste nuove misure non tardarono ad arrivare. Il primo a sostenere l’abolizione del lockdown fu l’unico medico del Consiglio Federale, specialista in salute pubblica e già medico cantonale: il “nostro” Kranken-Cassis. In quel momento nemmeno i suoi colleghi Maurer e Parmelin osarono assecondarlo. Seguirono settimane caratterizzate da frequenti riunioni del Consiglio Federale, il quale sembrava ormai muoversi in funzione dei consigli (o degli ordini?) di “Mister Covid-19”, il vanitoso maratoneta dottor Daniel Koch, capo del Dipartimento malattie infettive dell’Ufficio federale della sanità pubblica e autore di qualche scivolone nei mesi scorsi.

 

Verso aprile/maggio, l’evoluzione della pandemia in Svizzera cominciava a dare segni di assestamento. Nel frattempo, i rappresentanti del padronato erano riusciti con il loro lavoro di lobbying a convincere una maggioranza del Consiglio Federale ad abolire quasi tutte le misure decretate. Venne tolto il lockdown, finì il pagamento delle varie indennità, vennero allentate o abolite le principali misure atte a contenere la propagazione del SARSCoV-2. Berset annunciò una dopo l’altra tutte queste “buone notizie”, pur aggiungendo sempre che la pandemia non era ancora finita e che occorreva mantenere ancora le misure di protezione e soprattutto tanta responsabilità personale.

 

La rapida e radicale eliminazione delle misure più incisive – un fatto eccezionale rispetto agli altri paesi europei – fece però passare un altro messaggio, dando la falsa impressione che il pericolo fosse passato. Per questo motivo, le misure di protezione come la distanza fisica, il porto delle mascherine, il lavaggio e la disinfezione frequente di mani e superfici di contatto non vennero più seguite con la necessaria disciplina, soprattutto nella Svizzera tedesca. In Ticino e, in parte minore, in Svizzera romanda, la popolazione fece invece prova di maggior responsabilità, essendo stata confrontata con un’esperienza più drammatica con il Covid-19.

 

Il governo federale si affrettò a delegare nuovamente la gestione della pandemia ai cantoni, i quali dovettero allora assumere il grosso della responsabilità per le misure di lotta contro il propagarsi del virus, per la cura dei pazienti e per una gran parte delle varie indennità da erogare, all’eccezione di quelle già regolamentate a livello federale. I governi cantonali cominciarono a loro volta ad avere l’impressione che si stesse tornando ad una situazione di normalità e sposarono una linea piuttosto “rilassata”. La “Neue Zürcher Zeitung”, da sempre cassa di risonanza degli interessi del capitale svizzero, cominciò ad invitare la politica a mettere fine al “Seuchen-Sozialismus”, il “socialismo da epidemia”.

 

Zittitisi gli applausi per il personale curante ai quali ci eravamo abituati durante la “fase calda” della pandemia, anche a Berna si tornò al “business as usual”, con il Parlamento federale che opponeva all’“Iniziativa per cure infermieristiche forti” un controprogetto al ribasso e del tutto insoddisfacente, addirittura peggiorato dal Consiglio degli Stati dopo la fine della prima ondata. La maggioranza borghese rifiutò di concedere al personale curante – già duramente provato dalle inaccettabili condizioni di lavoro “normali” – dei miglioramenti sostanziosi al salario e alle condizioni di lavoro.

 

Nel corso dell’estate ben poco venne organizzato in previsione di una seconda ondata, e questo malgrado i ripetuti appelli degli esperti. Non vennero rafforzate sufficientemente le strutture ospedaliere, in particolar modo le unità di terapia intensiva (ad eccezione del Ticino dove EOC e la clinica “no profit” di Moncucco investirono parecchio nell’infrastruttura). Non venne aumentato il numero di personale curante, né tantomeno vennero create delle riserve di personale in grado di sostituire il personale ammalato. La formula magica del “contact tracing”, recitata come un mantra per assicurare il contenimento della pandemia, si rivelò presto inefficiente per mancanza di mezzi adeguati.

 

Ci volle il violento arrivo della seconda ondata per far capire anche a chi insisteva a fare il “Neinsager” che la tanto decantata responsabilità individuale – basata su un concetto di libertà intrisa più di liberismo che di filosofia kantiana – non poteva bastare. Eppure Economiesuisse e compagnia bella fecero il possibile per scongiurare un secondo lockdown, forse per paura che le imposte potessero salire. E le autorità federali ancora una volta fecero il possibile per ottemperare ai loro desideri, con il ministro delle finanze (o forse dovremmo dire dei risparmi) Ueli Maurer – di certo non un discepolo di Keynes – che affermava che le casse della Confederazione non avrebbero potuto sopportare una spesa come quella della primavera. E dire che la Svizzera per il momento ha investito solo fondi equivalenti al 3% del suo PIL nella lotta alla pandemia, a confronto con il 6,4% della Germania (anch’essa dotata di un ministro delle finanze molto rigido e dal borsello piuttosto chiuso). I cantoni intanto si sono trovati in grossa difficoltà a gestire non solo l’emergenza sanitaria ma anche quella economica, prendendo delle decisioni spesso scoordinate e a volte persino assurde nella pura tradizione del federalismo elvetico.

 

Mentre da noi le autorità tergiversano e si piegano ai diktat del padronato e della finanza, abbandonando al loro destino le fasce più fragili della popolazione e il personale sanitario, altri paesi ci indicano delle soluzioni alternative. Tra i vari esempi, bisogna citare quello di Cuba, dove viene data la priorità assoluta alla salute pubblica. Anche da noi si può combattere la pandemia facendo in modo che nessuno venga lasciato indietro e che si dia la priorità alla salute pubblica: basta avere la volontà di introdurre le misure politiche necessarie.

 

In ambito sanitario, innanzitutto, si deve aumentare il personale sanitario negli ospedali, nelle case per anziani e nei servizi territoriali, in modo da poter offrire il turnover necessario e da disporre di un’eventuale corpo di riserva, offrendo inoltre miglioramenti sostanziali di salario e condizioni di lavoro. Si devono inoltre rinforzare le riserve dell’infrastruttura ospedaliera, come i letti di terapia intensiva, mentre i servizi sanitari presenti sul territorio – dai medici di famiglia ai servizi Spitex – devono essere rinforzati in materiale e personale specializzato per permettere di curare i pazienti ammalati di Covid-19 fuori dagli ospedali. Particolare attenzione meritano anche le strutture psichiatriche, anche loro molto sollecitate dalla pandemia.

 

La risposta alla pandemia non si riduce però alla questione sanitaria. Non lasciare indietro nessuno vuol dire prevedere anche delle misure di protezione per il mondo del lavoro e il tessuto economico. In caso di lavoro a tempo parziale o di chiusura di determinati settori non indispensabili, le indennità devono essere erogate per permettere di versare una somma corrispondente al 100% del salario normale, soprattutto per i salari inferiori ai 5000 franchi mensili. La Confederazione deve rimpolpare ulteriormente i fondi per i casi di rigore. I lavoratori indipendenti e gli interinali devono essere indennizzati in funzione delle loro perdite, e gli affitti per i loro locali di lavoro devono essere almeno parzialmente coperti con delle sovvenzioni pubbliche. Durante tutto il periodo di pandemia deve vigere un divieto assoluto di licenziamento. Il mondo della cultura, spesso già confrontato a condizioni di lavoro precarie, merita tutta l’attenzione ed il sostegno necessari per poter continuare a fornire il suo contributo vitale alla nostra società. E last but not least, il personale dei servizi indispensabili, dalla sanità alla grande distribuzione, dall’erogazione di acqua ed energia ai trasporti e alla sicurezza, dagli asili nido e le scuole alla ristorazione, e last but not least dell’agricoltura (tutti mestieri notoriamente sottopagati e in gran parte occupati da donne), deve ottenere delle migliori condizioni salariali e di lavoro: di soli applausi non si vive!

 

Le riserve plurimiliardarie della Banca nazionale non bastano per finanziare queste misure? In controtendenza con le politiche di sgravi fiscali a pioggia degli ultimi trent’anni, bisogna introdurre urgentemente una “tassa Covid-19”: tassare dell’1% tutti i patrimoni sopra i 2 milioni porterebbe più di dieci miliardi nelle casse pubbliche, secondo le stime più prudenti. Insomma, prendiamo i soldi da chi dalla crisi ci guadagna e spendiamoli a favore di chi invece è in difficoltà.

 

Una volta passata questa crisi pandem(on)ica non possiamo tornare alla società di prima, né tantomeno possiamo accettare un peggioramento causato dalle rivendicazioni indecenti del capitale. Dobbiamo invece costruire una nuova società, dove il rispetto per la natura metta fine al suo saccheggio e alla sua progressiva distruzione (fenomeno all’origine dell’attuale pandemia e probabile causa di future malattie infettive per le quali non esistono per ora vaccini), dove a dominare non siano la concorrenza e la corsa egoistica alla massimizzazione del profitto, ma il “care”, l’attenzione e l’aiuto reciproco. Andiamo verso una società del care come quella definita dall’economista Christian Marazzi: un modello di sviluppo che pone al centro la vita, l’ambiente, la socialità, la cultura e la ricerca del benessere generale. O per dirla altrimenti, parafrasando l’insegnamento ormai centenario di Rosa Luxemburg, se vogliamo evitare la barbarie, dobbiamo creare una società alternativa, socialista ed ecologica

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