di Nelly Valsangiacomo
Poche e frammentarie informazioni sono emerse dalla direzione della Rsi in queste due settimane, forse nemmeno in grado di rassicurare chi vedrebbe di buon occhio un’importante revisione delle reti radiofoniche; un’avarizia di informazioni persino all’indirizzo della Corsi, organo di controllo interno sugli indirizzi di programma.
Poco rassicuranti e piuttosto fastidiosi anche l’arroganza e il paternalismo utilizzati per sostenere che chi difende Rete Due ha una visione snob ed elitista della cultura: affermazioni non solo prive di fondamento, ma anche fuori luogo se espresse da chi ha ampiamente approfittato proprio del mondo della cultura per difendere la sua poltrona nel momento della votazione No-Billag.
Rete Due è un patrimonio comune, in particolar modo per una minoranza linguistica come la Svizzera italiana, in un Paese come il nostro, in cui la stampa è frammentata nelle diverse realtà regionali, politiche e culturali e l’unico media che accomuna tutte le regioni è la radiotelevisione di servizio pubblico.
È forse utile ricordare che la cultura può assumere accezioni ampie, stimola riflessioni e dubbi e può aiutarci a comprendere meccanismi anche piuttosto oscuri. Prendiamo ad esempio la cultura aziendale della Ssr Rsi. Da oltre un decennio, la Ssr è un’azienda che ha assunto delle modalità di gestione privata, tra le quali stipendi significativi e bonus agli alti dirigenti. E siccome al contempo bisogna risparmiare, da tempo conduce una politica di esternalizzazioni e tagli, anche al personale, ossia coloro che la radiotelevisione e il web li fanno; come non ricordare in questo frangente lo scandalo dei licenziamenti alla Rsi, a cavallo del 2016, con collaboratori che da anni lavoravano nell’azienda messi alla porta dagli agenti di sicurezza; periodo in cui, tra l’altro, sembra un aneddoto ma forse è un paradosso, fu (ri)assunto tra le polemiche l’attuale capo delle tre reti radiofoniche.
Partiamo pure dall’idea che esistano spazi di razionalizzazione, senza intaccare il cuore del servizio pubblico radiotelevisivo. Scorrendo le undici pagine dell’organigramma della Rsi, tra cariche più comprensibili, spuntano funzioni che meritano il premio dell’originalità e che fanno sorgere più di qualche ragionevole dubbio, soprattutto se si pensa che dal 2010 la Ssr ha una direzione strategica unica, forte e centralizzata e che la Rsi è una sorta di filiale.
Ci si domanda dunque il perché di una serie di doppioni a livello di gestione aziendale e di un’organizzazione a compartimenti stagni, che pare d’ostacolo a possibili sinergie. La domanda l’avevo già posta in tempi non sospetti: le riorganizzazioni in senso manageriale della Ssr Rsi avrebbero portato un vantaggio effettivo alle utilizzatrici e agli utilizzatori del servizio pubblico radiotelevisivo (Valsangiacomo, ‘Stiamo lavorando per voi: l’aziendalizzazione della Ssr’, 2012)? La risposta per me ora è chiara.
È evidente che si è confrontati a un organigramma pachidermico, una struttura verticistica e piramidale, con quel non so che di Versailles ai tempi del re Sole; una gerarchia che costringe a passare da almeno quattro superiori prima di vedere accettata o rifiutata una proposta di programma. Ne risulta una cultura aziendale in cui le posizioni di potere servono più a imporre i propri voleri che alla realizzazione collettiva e burocratizzano la creatività; non è un dettaglio da poco e potrebbe spiegare anche i pesanti silenzi del personale dell’azienda: entusiasmo, passione e progettualità gettati alle ortiche. Da uno sguardo generale, possiamo infatti ipotizzare (pure ipotesi!) un sistema di pressione che divide, più che creare spirito di gruppo, e che provoca paure e tensioni, poiché i tagli sono sempre all’ordine del giorno, una spada di Damocle che toglie il sonno. Certo, magari vaneggiamo, io e le quaranta testimonianze di mobbing, bossing e molestie sessuali emerse finora. Se ne attendono altre, com’è stato per la Radiotelevisione della svizzera romanda (Rts).
Una cultura aziendale, infine, che dietro un’apparente trasparenza, “ce la conta un po’ su”, con la distratta connivenza di molta politica, e che tende a privilegiare la comunicazione orale e informale, quando si tratta di parlare di ristrutturazione, come accade attualmente alla Ssr, con il progetto Change Management, o alla Rsi con il corrispettivo Lyra. Due nomi per dire la stessa cosa: togliere la cultura dal secondo canale radio e ridimensionarla al lumicino, rifacendosi all’esperienza di Espace 2 sulla radio romanda. Ma poi, quali incredibili competenze sono coagulate in questo fantomatico gruppo Lyra, di cui si sa così poco, salvo che è diretto dal nuovo responsabile delle reti radiofoniche? Come si scelgono le persone che partecipano a progetti di tale portata? Sarebbe utile saperlo, così, in un guizzo di democrazia che permetta di capire.
La cultura democratica è infatti quella che sottende la concessione stipulata tra la Ssr e il Consiglio federale, una sorta di contratto sociale, un accordo tra i molti che regolano la società civile. Leggere la concessione è come leggere le pagine della propria assicurazione malattia: noiosissimo, ma fondamentale. I punti cardine del testo sono l’informazione, la formazione e la cultura. I tre programmi vi sono ben definiti, compreso il secondo “prevalentemente dedicato all’arte e alla cultura classiche e moderne. E alle informazioni di approfondimento”. È chiara anche l’offerta online, che è complemento importante, ma non sostituisce il lineare.
La concessione dovrà essere ridiscussa nel 2022. Ipotizziamo che si voglia svuotarla di contenuto, come regolarmente accade, per poi dimostrare la necessità di un suo sostanziale rimaneggiamento. Sarebbe una sorta di violazione del contratto sociale e allora varrebbe la pena rivolgersi all’Ufficio delle comunicazioni (Ufcom), che vigila sull’osservanza delle concessioni. È però anche una questione di politica culturale che riguarda tutti noi: è la nostra radiotelevisione, quella che permette alla Svizzera tutta di comunicare, di conoscere e di conoscersi.
Quando, nel 2019, vi fu l’ultima importante consultazione sul “valore pubblico” della Ssr, gli aspetti identitari e di coesione furono posti in grande rilievo, così come la richiesta di articolare diverse componenti per restituire e rendere conto della nostra società complessa. E tra queste componenti, la cultura “è considerata una forte missione di servizio pubblico che deve essere mantenuta e rafforzata (…) indipendentemente dalle problematiche degli indici di ascolto”. Interessante.
Ma allora Rete Due ha il suo senso, allora Lyra dovrebbe essere preposto a rinnovarla, rafforzarla, non a svuotarla di senso e di sostanza. Lo so, è stato più volte ribadito che bisogna avere uno sguardo d’insieme sulla Rsi. Il problema è che se si allarga lo sguardo, non c’è di che essere contenti: ormai si parla di “cultura pop”; io parlerei semplicemente d’abbattimento della qualità dei programmi, perché la “cultura pop” è tutt’altro che l’alleggerimento e la banalizzazione dei contenuti al quale stiamo assistendo. Possiamo anche ricordare la diminuzione del budget per gli approfondimenti giornalistici e la mancata sostituzione di personale nelle redazioni. Allora volgiamo lo sguardo al web, da almeno un decennio in un triste stato, forse per non allarmare la concorrenza. La direzione ha evocato due nicchie di cultura nelle quali si faranno grandi cose: Canale cultura, attualmente e da anni con 1,5 capacità lavorative, e Cult+, che dalla televisione è passato sui social con 2 capacità lavorative.
Piantiamola di scherzare. Cosa c’è dietro la narrazione della Ssr? E da quando la Rsi non investe seriamente nell’approfondimento, nella cultura e nella formazione delle giornaliste e dei giornalisti? E come mai si lavora per lasciare un’eredità così avvelenata? C’è da pensare che qualcuno qualcosa ci guadagnerà.
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