Verso la presidenza Biden, senza illusioni

di Fabrizio Tonello

 

Ottanta milioni di voti contro circa settantaquattro. È fatta. Il mondo civile tira un sospiro di sollievo al pensiero che il gangster approdato nel 2016 alla Casa Bianca se ne vada tra poco meno di un mese. 

Non a caso i governi europei hanno accolto Biden come fosse una fidanzata di ritorno dopo quattro anni di assenza inondandolo, se non di fiori, di sorrisi e congratulazioni molto prima che la sua elezione fosse ufficiale.

 

Riposti i calici, sarà però bene ricordare che da qui al 20 gennaio Donald Trump può fare altri guai. Molti guai. Ha un mese di tempo in cui può graziare i suoi complici, promuovere i suoi pretoriani, demolire altre regolamentazioni ambientali e, soprattutto, sabotare la presidenza Biden prima che inizi.

 

Prima di tutto i conteggi dei voti vanno guardati con attenzione e in tre stati chiave, Pennsylvania, Wisconsin e Georgia, le schede che dividono i due candidati sono in quantità microscopica rispetto ai voti espressi. Lo stesso in Arizona. Vincendo in questi quattro stati il totale complessivo del candidato democratico arriva a 306 grandi elettori ma sarebbero bastate poche decine di migliaia di voti espressi diversamente per dare a Trump la maggioranza nell’iniquo collegio elettorale, benché egli abbia avuto sei milioni di voti popolari in meno rispetto a Biden.

 

In Arizona il candidato democratico ha ottenuto 10.457 voti più di Trump. In Georgia ne ha ottenuti 12.670. In Wisconsin 20.565. In totale, 43.692 suffragi su 154 milioni di schede scrutinate. Eppure se questi quarantatremila voti fossero andati a Trump lo scenario politico sarebbe stato rovesciato: il presidente uscente avrebbe ottenuto gli 11 grandi elettori dell’Arizona, i 16 della Georgia e i 10 del Wisconsin. Fate le addizioni: nel collegio elettorale questi 37 voti, sommati ai 232 che Trump ha raccolto negli altri stati avrebbero prodotto una perfetta parità fra i due candidati: 269 a 269. Cosa sarebbe successo?

 

I Padri fondatori erano oligarchi e, per buona parte, proprietari di schiavi ma sapevano fare il loro mestiere: il caso è previsto dalla Costituzione che, in queste circostanze, assegna il ruolo di eleggere il presidente alla Camera dei rappresentanti. Tutto a posto, quindi? I democratici sono in maggioranza in questo ramo del Congresso. In realtà no, perché in questa procedura la Costituzione stabilisce che si voti per Stati e non per teste dei singoli rappresentanti. Guarda caso, le manipolazioni dei collegi elettorali effettuate dai repubblicani dopo il censimento del 2010 permettono loro di controllare le delegazioni di 26 Stati su 50, ovvero la maggioranza, benché raccolgano meno voti e meno deputati dei democratici. Qualcuno parlava di “più antica democrazia del mondo”, giusto?

 

Fortunatamente non è andata così, ma il solo fatto che gli Stati Uniti si tengano un sistema elettorale che permette frequentemente di assegnare la presidenza a chi ha avuto meno voti popolari dovrebbe farci dubitare della saggezza, e forse anche della sanità mentale, dei politici americani.

 

Nell’ultimo mese i tweet roboanti di Trump e dei suoi scherani, gli appelli alla Corte Suprema e le tecniche intimidatorie come il chiedere ai repubblicani del Michigan di rovesciare il voto popolare e assegnare a lui i 16 grandi elettori dello Stato sono state minacce a vuoto. Il tentativo di mantenersi al potere pur avendo ricevuto ben sei milioni di voti meno di Biden, un golpe bianco con l’aiuto dei giudici amici della Corte Suprema, è fallito. Sui motivi di questo fallimento vale la pena di soffermarsi.

 

Donald Trump è un uomo di televisione, quindi non legge. Se lo facesse, avrebbe tenuto sul comodino The Dictator’s Handbook di Bruce Bueno de Mesquita, che è un serio scienziato politico americano e spiega a lunghezza di 322 pagine perché “i cattivi comportamenti sono quasi sempre buona politica”. Purtroppo, in questo sottotitolo del libro, la parola chiave è “quasi”: non sempre mentire, intimidire, creare lager per i migranti, violare le regole e minacciare gli avversari è davvero una buona politica.

 

Trump ha un talento naturale per le bugie e il suo stile provocatorio, i suoi i comportamenti da bullo di cortile sono piaciuti e piacciono a decine di milioni di americani. Questo non è sorprendente: le personalità autoritarie spesso attraggono le folle, è una malattia della democrazia da cui non siamo vaccinati. Quando il gioco si fa duro gli aspiranti dittatori che vogliono mantenersi al potere devono però seguire il manuale perché i golpe, i semi-golpe e le elezioni truccate non sono cose da dilettanti: le decine di ricorsi ai tribunali inoltrati da Rudy Giuliani e dai suoi collaboratori sono stati tutti respinti.

 

Il manuale di Bueno de Mesquita prescrive che prima di tutto occorrono i fondi con cui corrompere chi potrebbe ostacolare i piani dell’aspirante dittatore. Trump forse è ricco e forse no, ma comunque è sempre stato piuttosto sparagnino con i suoi soldi e non risulta che quest’anno ne abbia usati per venire rieletto, come fanno molti politici negli Stati Uniti.

 

Secondo: occorre essere certi dell’appoggio dei settori che contano nel paese, in particolare dei militari (de Mesquita ha letto Mao: “Il potere nasce dalla canna del fucile”). Al contrario, Trump si è circondato di generali ma poi li ha licenziati tutti: John Kelly, Jim Mattis, Michael Flynn, H. R. McMaster. Non solo: ha comprato un sacco di giocattoli bellici per le forze armate ma ha offeso eroi di guerra intoccabili come John McCain (prigioniero in Vietnam e poi senatore). Ha insultato le famiglie di caduti in Afghanistan, insomma non ha capito che mantenere la lealtà dei militari esige qualcosa di più che immaginare parate di stile nordcoreano a Washington.

 

Terzo: l’establishment conta, e se un potenziale golpista vuole mantenersi al potere dopo la fine del suo mandato, occorre che esso sia d’accordo. I finanzieri sono stati ovviamente felici dei lussuosi regali fiscali dell’amministrazione Trump ma sono sufficientemente rassicurati da Joe Biden per essere certi che il nuovo presidente non toccherà i loro privilegi. Tanto rassicurati che il 24 novembre un centinaio di amministratori delegati di aziende e fondi d’investimento hanno scritto una lettera aperta a Trump per chiedergli di ammettere la sconfitta e di permettere che la transizione potesse procedere in maniera ordinata. Di certo una firma come quella di Stephen Schwarzman, il chief executive di Blackstone, ovvero del maggiore fondo-avvoltoio di Wall Street, ha avuto il suo peso: il giorno dopo Trump ha autorizzato l’agenzia che governa il funzionamento della transizione da un presidente all’altro a dichiarare che Biden era il presidente eletto.

 

L’indice Dow Jones, che in realtà non aveva fatto una piega quando Trump lanciava i suoi tweet incendiari, considerandoli parte dello spettacolo, ha festeggiato con lo champagne, superando per la prima volta nella sua storia i 30.000 punti.

 

E ora? Trump ha dietro di sé 74 milioni di voti e di sicuro vorrà capitalizzarne il peso, autodichiarandosi capo dell’opposizione pur non avendo alcuna carica all’interno del partito repubblicano, di cui del resto non ha bisogno: con i suoi tweet raggiunge 90 milioni di americani. Piuttosto è Biden che arriverà al 20 gennaio con una pandemia fuori controllo (per allora le vittime potrebbero aver superato quota 350.000) e con un governo da formare nonostante l’opposizione determinata del partito repubblicano, che quasi certamente manterrà il controllo del Senato. Spetta infatti a questo ramo del Congresso approvare tutte le nomine del presidente: non solo i membri del gabinetto ma anche ambasciatori, giudici e centinaia di alti funzionari. Obama non riuscì a riempire i ranghi della sua amministrazione per l’ostruzionismo dei repubblicani ed è sicuro che Biden si troverà di fronte allo stesso problema.

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