Il vento della speranza torna a soffiare sull’America latina

di Roberto Livi, corrispondente dall’Avana

 

Un vento di speranza per le forze progressiste dell’America latina si è levato nel primo fine settimana di novembre.

Sabato 7, il candidato democratico Joe Biden dichiarava di aver vinto le presidenziali negli Stati Uniti battendo Donald Trump. Il giorno dopo, a La Paz, i candidati del Movimento al Socialismo (MAS), Luis Arce e David Choquehuanca, giuravano come presidente e vice presidente della Bolivia, dove, probabilmente per la prima volta, un golpe è stato sconfitto nelle urne in un lasso di tempo di soli 12 mesi. È questo, infatti, il significato del trionfo elettorale (55% dei voti) ottenuto dal Mas nelle elezioni politiche e presidenziali del 18 ottobre.

 

Si è trattato di una vittoria che ha un enorme significato per l’America latina. Il MAS ha saputo sconfiggere pacificamente forze direttamente appoggiate sia dagli Usa di Donald Trump – fautore della più chiara e dichiarata politica di ingerenza contro qualsiasi governo progressista –, sia dal subimperialismo del Brasile di Jair Bolsonaro. Si tratta di forze di estrema destra, che una volta al potere in Bolivia sono ricorse numerose volte alla violenza – come nei massacri di Senkata e Sacaba – contro manifestazioni pacifiche in favore dell’ex presidente Evo Morales, costretto all’esilio. Hanno bruciato la Wiphala – bandiera simbolo dello Stato plurinazionale che dà dignità nazionale ai 36 popoli indigeni di Bolivia – ed è stata imposta la Bibbia come simbolo del potere neocoloniale.

 

Non solo. In un anno, il cosidetto “governo de facto” di Jeanine Áñez ha cercato di privatizzare tutto quello che era possibile ed è stato responsabile di massicci furti del denaro pubblico, compreso quello destinato all’acquisto dei respiratori per affrontare il Covid-19. Inoltre, ha causato la caduta dell’11% del Pil e un aumento drastico della disoccupazione (dal 4 al 30%), colpendo anche quella classe media urbana che nel 2019 aveva, quantomeno, giustificato il golpe.

 

Il vero artefice della vittoria del ticket Arce-Choquehuanca è stata la grande mobilitazione dal basso. Quella che l’analista Katu Akonada definisce “la potenza plebea”, formatasi nelle lotte per la difesa dei territori indigeni e poi – durante gli anni della presidenza di Evo Morales – nella difesa delle risorse naturali. Le grandi marce, gli scioperi, l’occupazione delle strade di minatori, donne, cocaleros, insomma della base popolare del MAS, sono riusciti a impedire che le elezioni venissero rimandate al 2021 – o alle calende greche – e hanno dato vita a una “insurrezione nelle urne”.

 

Questo grande movimento sociale, secondo lo storico Alberto Betancourt Posada, “sta riprendendo il cammino della decolonizzazione della politica”. Ovvero, a ripensare i concetti del capitalismo neoliberista e estrattivista e analizzare criticamente l’egemonia di una tradizione filosofica che ha negato il valore di altre tradizioni filosofiche e politiche dei popoli indigeni. Secondo Betancourt, “il nuovo incontro con altre tradizioni intellettuali permetterà di ipotizzare un’altra forma di polis latinoamericana costruita a partire da prospettive comunitarie e di liberazione”.

 

Una ripresa delle politica del buen vivir contraria alle pratiche e ai valori del neoliberismo è stata al centro del discorso presidenziale di Luis Arce, assieme alla necessità di recuperare l’unità del paese anche a costo di mediare con una destra rimasta aggressiva. Ma non sarà un compito facile. Il nuovo presidente dovrà soprattutto risollevare l’economia dopo i disastri del governo golpista, come pure adottare una difesa efficace dal Covid-19 che ha colpito duro – anche in questo caso a causa della colpevole inefficienza del governo de facto.

 

Per questa ragione Arce ha varato un governo di tecnocrati, con uomini di sua fiducia nei posti chiave, lasciando fuori politici vicini all’ex presidente Evo Morales e con solo il ricostruito ministero della Cultura riservato a una leader indigena. E ha, tatticamente, deciso di centrare i piani di ripresa economica sullo sviluppo del Solar de Uyuni come “capitale mondiale del litio”. Sono scelte che hanno sollevato critiche.

 

Arce dovrà nella pratica trovare una via di accordo con Morales rientrato in patria a furor di popolo il 9 novembre. Il movimento indigeno-originario-contadino potrebbe giocare un ruolo fondamentale per favorire una linea che permetta il “recupero” dell’ex presidente per dare impulso ai cambiamenti che la Bolivia necessita.

 

Le aspirazioni a consolidare uno Stato democratico basato sui diritti sociali, plurinazionale e pluriculturale – dunque con il riconoscimento dei suoi popoli originari –, di uguaglianza di genere e con piena vigenza dei diritti umani è stato alle base anche del voto popolare con cui in Cile, nel plebiscito del 25 ottobre, il 75% della popolazione ha votato a favore di una nuova Costituzione. E di una Convenzione costituzionale che dovrà essere eletta nell’aprile del prossimo anno e formata paritariamente da donne e uomini.

 

Anche in questo caso, la grande mobilitazione popolare ha imposto una linea antitetica a quella dell’establishment politico – compresa gran parte dell’opposizione al governo di destra del presidente Sebastián Piñera – che puntava a riforme di facciata della Costituzione pinochetista del 1980 .

 

La grande incognita che si installa ora in Cile è se queste forze tradizionali riusciranno ad avere un’influenza determinante nella Convenzione Costituzionale grazie alla legge che impone un quorum dei due terzi per varare gli articoli della nuova Costituzione. O se i movimenti sociali e le forze politiche del rinnovamento – le forze che hanno imposto la fine della istituzionalità pinochetista – potranno imporre una Costituzione realmente democratica, che implichi il superamento del neoliberismo.

 

Dal punto di vista geopolitico regionale la sconfitta della destra golpista in Bolivia e del governo di Piñera in Cile – citato come esempio di successo del neoliberismo – indeboliscono le iniziative imperialiste più offensive – come il gruppo di Lima che riunisce i governi delle destre latinoamericane – e possono dare respiro a Cuba e Venezuela. Soprattutto dopo la sconfitta di Trump.

 

Ma senza eccessive illusioni di cambiamenti sostanziali di politica da parte del nuovo inquilino della Casa bianca. Vi sono pochi dubbi che la politica di Biden, quando riuscirà a insediarsi, continuerà a basarsi su una sostanziale continuismo rispetto alle amministrazioni precedenti. La differenza rispetto al feroce interventismo di Trump starà nei metodi – fatto però che non è di poco conto – e non nella pratica di controllo del subcontinente. Specie nella politica di contenimento dell’espansione economica e commerciale della Cina in America latina

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