«Il Molino? Una realtà antagonista che il Municipio non accetta»

di Giuliano Gasperi

 

L’INTERVISTA a BRUNO BRUGHERA, portavoce dell’Associazione Idea Autogestione

Sarà l’anno in cui la Città e il Molino troveranno un’intesa sulla futura sede del centro sociale?

A dicembre il Municipio di Lugano ha scelto il progetto per la riqualifica dell’ex Macello e gli autogestiti non ne fanno parte. Il dialogo fra le parti è ai minimi storici, soprattutto dopo la manifestazione anarchica di ottobre a Molino Nuovo. Un mosaico complesso, un equilibrio fragile. Ne parliamo con Bruno Brughera, portavoce dell’Associazione Idea Autogestione (AIDA).

 

 

Signor Brughera, alcuni vi associano al Molino come se foste i loro portavoce, ma non è così. Ci spiega perché è nata AIDA?

 

«È un’associazione creata da cittadini che hanno a cuore il tema dell’autogestione e sono sensibili in generale alle politiche per i giovani. Siamo nati per mettere un punto fermo su quello che secondo noi deve essere il primo passo: il riconoscimento dell’autogestione come principio».

 

 

Come definirebbe il vostro rapporto con il centro sociale?

 

«Abbiamo simpatia per il Molino e abbiamo dei contatti, ma non siamo una loro emanazione. Anche perché abbiamo già tutti una certa età. Io ad esempio sono del ’63 e a fine anni ‘70 ho vissuto la prima esperienza di autogestione in città, nell’allora padiglione pediatrico del Civico. Poi ho preso parte al corteo per l’occupazione dell’ex Macello, ma non ho mai fatto parte dell’assemblea del Molino. Abbiamo tentato d’inserirci nella diatriba con la Città portando gli esempi di altre realtà autogestite in Svizzera: realtà con molti pro e pochi contro e con le quali la politica, con maggioranze non per forza di sinistra, è riuscita a trovare degli accordi».

 

 

In cosa la situazione luganese è diversa dalle altre?

 

«La politica non è mai stata lungimirante sulle problematiche giovanili. Da bambino vivevo a Loreto e non avevamo nemmeno un campetto, uno spazio, nulla. Giocavamo sul piazzale delle scuole e venivano cacciati dal portinaio, che era una specie di dittatore. A un certo punto, con la maestra Mariuccia Medici, un gruppo di allievi si era recato in Municipio per perorare la causa. Dopo qualche tempo la Città aveva fatto asfaltare una specie di campetto, che esiste ancora oggi. Più tardi erano arrivati anche i canestri, ma incombeva sempre la figura del portinaio. È così, Lugano snobba da sempre la questione».

 

 

Oggi a livello di campetti siamo messi molto meglio: ce n’è almeno uno in ogni quartiere.

 

«Sì, ma al di là di questo mancano spazi di aggregazione per i giovani. Prendiamo ad esempio la situazione alla pensilina Botta. Si può dire tutto ciò che si vuole su quei ragazzi, ma bisogna chiedersi perché sono là, perché finiscono là».

 

 

Tornando agli autogestiti luganesi, in cosa sono diversi da quelli di altre città svizzere? C’è anche altrove questo rapporto conflittuale con la politica e in generale con le istituzioni?

 

«A Lugano gli autogestiti sono in una situazione precaria, malgrado la convenzione che è stata fatta con la Città. Lo sono dal 2002, senza sapere fino a quando potranno restare, e ciò non permette loro d’investire nelle infrastrutture o di progettare nulla a lungo termine. Tuttavia non ha impedito loro di strutturarsi e promuovere tantissime iniziative a sostegno di popoli oppressi e azioni di solidarietà sul territorio. Ad esempio il cospicuo sostegno al comitato per la ricostruzione di Kobane! In più il Municipio non ha mai accettato il fatto che il Molino non abbia un rappresentante fisso con cui interloquire. Non può averlo perché l’autogestione è retta da una logica assembleare e chi la rappresenta è scelto di volta in volta. L’ultimo incontro che ricordo è quello del 2015 al Canvetto, poi più niente, solo promesse non mantenute. Gli autogestiti non accettano di essere presi in giro e la politica non accetta la presenza di una realtà antagonista».

 

 

Un incontro al quale il Molino non ha partecipato è stato quello del giugno 2019, dove invece c’era lei in rappresentanza di AIDA. Non ha un buon ricordo: cosa è successo?

 

«La Città si era inventata una commissione presieduta da Fabio Schnellmann, che ha sempre osteggiato l’autogestione. Poi c’erano un poliziotto, un paio di rappresentanti del Cantone e un architetto, forse l’unico in grado di capire davvero la problematica. Io e Danilo Baratti eravamo stati chiamati per incontrare una rappresentante del Cantone che aveva bisogno d’informazioni, invece ad aspettarci c’era l’intera commissione: un’imboscata. La prima domanda è stata: di quanti metri quadrati ha bisogno il Molino? Non c’era la minima consapevolezza del tema».

 

 

Atti di violenza e vandalismi non aiutano a trovare un accordo.

 

«Certo. Ma di quali atti di violenza parliamo? Alla protesta di Molino Nuovo hanno partecipato alcune persone che vanno al Molino, ma non era organizzata dal Molino (ufficialmente da Azione Antifascista, ndr). L’episodio della testata a una giornalista è deprecabile e lo condanno, ma la persona responsabile ha avuto tanti problemi, è ai margini della società e nessuno è mai andato a vedere la sua storia».

 

 

Dal Molino non è mai arrivata una nota per dissociarsi dall’accaduto e condannarlo.

 

«È vero, poteva essere fatto, ma non vanno condannati solo perché non hanno inviato un comunicato. Nemmeno per i vandalismi, che sono atti individuali. In passato è capitato anche che venissero fatti apposta da altri per inguaiare gli autogestiti. Deficienti gli autori di questi gesti, ma non facciamo di tutta l’erba un fascio».

 

 

Il Molino ha il merito di far conoscere una cultura alternativa a quella istituzionale e questo è un arricchimento per la comunità. Però è chiuso in se stesso. Ci possono andare tutti, d’accordo, ma gli autogestiti non sembrano interessati ad aprirsi a chiunque voglia entrare nel loro mondo.

 

«Non si può dire che non sia aperto. Un tempo era apertissimo, poi negli ultimi anni si è chiuso, è vero, ma perché ci sono stati forti attacchi. Ricordo che tempo fa la polizia tollerava scene aperte di spaccio fuori dal Macello, che in realtà è l’unico luogo dove non ci sono droghe pesanti. Chi le vende viene buttato fuori. In più il centro sociale è aperto nell’accogliere le persone in difficoltà. È l’ultima frontiera… dopodiché c’è il nulla».

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