Il sarto di Ulm Una possibile storia del PCI

di Franco Cavalli

 

La mattina del 12 novembre del 1989, l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto si presentò inatteso ad una piccola assemblea di reduci della Resistenza in un quartiere di Bologna. In un breve intervento, disse che la caduta del muro di Berlino dimostrava quanto il PCI dovesse rinnovarsi.

Alla domanda di un giovane redattore dell’Unità, “Rinunciamo anche al nome comunista?”, egli semplicemente rispose “Tutto è possibile”, anche se di ciò non ne aveva mai parlato nella Direzione del partito. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono con grossi titoli: “Il PCI cambia nome”. Poco più di 18 mesi dopo, il PCI cessò di esistere. Il nuovo che avrebbe dovuto sorgere dalle sue ceneri non si realizzò mai e, come sappiamo bene oggi, si andò continuamente di male in peggio. Ancora oggi in tanti si domandano come mai questo abbia potuto accadere in un partito che nel 1984, ai tempi della morte di Berlinguer, era diventato il primo partito d’Italia con il 35% dei voti e che rappresentava un patrimonio politico, intellettuale e sociale enorme.

 

Alcune settimane fa mi è capitata tra le mani la riedizione del libro di Guido Liguori “La morte del PCI: indagine su una fine annunciata” (1989/1991, Edizioni Bordeaux). In questo libretto Liguori dà un racconto molto dettagliato di quegli avvenimenti: mi è allora venuta voglia di riprendere il libro di Lucio Magri, che invece cerca di rispondere alle stesse domande, ma volando parecchio più alto e con una rara capacità di sintesi.

 

Lucio Magri, nato a Ferrara nel 1932, fu esponente della sinistra critica e del PCI, da cui fu radiato nel 1970 come membro del gruppo del Manifesto. Fu poi segretario del PdUP (Partito di Unità Proletaria) dal 1976 al 1984. Dopo la profonda svolta imposta all’inizio degli anni ‘80 da Berlinguer, che aveva abbandonato la politica del compromesso storico per rilanciare un discorso di classe, fu richiamato nel PCI. Quando Occhetto propose di scioglierlo, Magri fu il primo ad opporsi e ad organizzare quel fronte del NO che comprese circa un terzo degli iscritti. Dopo la scissione accettò di presiedere il gruppo parlamentare di Rifondazione Comunista, ma si dimise quando ebbe l’impressione che questo partito non avesse veramente voglia di intraprendere una vera rifondazione.

 

Deluso dall’andamento politico in Italia, dopo il 2005 si ritirò dalla scena pubblica: finì questo libro nel 2009, come aveva garantito alla sua cara Mara (racconta tutta la storia in modo molto commovente), a cui aveva promesso sul letto di morte di terminarlo. Fatto ciò, e non vedendo più un motivo per vivere né dal punto di vista personale né tantomeno da quello politico (“finché vivo io, non vedo la possibilità di una ripresa rivoluzionaria”) morì in Svizzera nel 2011 per assistenza al suicidio.

 

Il libro descrive in modo brillante soprattutto quello che lui chiama “il genoma gramsciano del PCI” e le ragioni della svolta di Salerno, quando Togliatti rientrando dall’URSS nel 1943 lanciò la parola d’ordine della via italiana al socialismo. Magri sottolinea molto bene il ruolo fondamentale svolto nel secondo dopoguerra dal PCI nella trasformazione democratica dell’Italia, che anche prima dell’avvento del fascismo era sempre stata solo al massimo uno stato oligarchico-monarchico.

 

Egli riassume in modo sintetico e brillante quasi 40 anni di storia, collegando il tutto ai più importanti eventi di politica internazionale (dall’inizio della guerra fredda alla guerra guerreggiata in Corea, dalla repressione a Budapest all’invasione della Cecoslovacchia nel 1968), rendendo al contempo conto delle ragioni per le quali il PCI era diventato una struttura fondamentale della società italiana e della sua evoluzione politica e sociale.

 

Ma, tornando alla domanda iniziale, come mai allora il corpo del partito, molto abituato ad essere intensamente coinvolto in continue discussioni politico-programmatiche, non resistette meglio all’improbabile uscita di Occhetto? Oltre al disorientamento che colpì soprattutto il mondo comunista – ma in gran parte anche quello socialdemocratico – dopo la caduta del muro di Berlino, Magri sottolinea due fattori fondamentali. Da una parte, il lungo lavorio di disgregazione che da anni veniva portato avanti dalla destra del PCI, da quelli che venivano allora chiamati i “miglioristi” ed erano capeggiati dal futuro presidente della Repubblica Napolitano, che ormai erano, più o meno segretamente, legati mani e piedi all’Internazionale Socialista. Dall’altra, giocò un ruolo importante anche la debolezza organizzativa della sinistra del PCI, e soprattutto il fatto che il suo carismatico leader Pietro Ingrao sia sempre stato restio a fare dei passi decisivi verso l’organizzazione di una corrente strutturata prima e di un nuovo partito in seguito, così che questo compito l’assunse poi Armando Cossutta, che essendo considerato un filostalinista godeva di molte meno simpatie tra i militanti del partito. Il resto lo fece l’inveterata abitudine dei militanti del PCI a seguire, spesso addirittura pedissequamente, quanto decideva la direzione del partito. Fatto sta che un patrimonio politico unico e di una ricchezza straordinaria fu perso quasi dall’oggi al domani, e per sempre.

 

P.S.: Ancora una spiegazione per quanto riguarda il titolo del libro. Magri si riferisce ad un apologo raccontato da Bertolt Brecht e che Ingrao aveva usato per rispondere ad un militante che gli chiedeva se vedeva in futuro la possibilità di una ripresa del movimento comunista. “Il sarto di Ulm”, fissato nell’idea di creare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: “Ecco, posso volare”. Il vescovo lo condusse a una finestra del suo alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia – commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare. Magri, come Ingrao, credeva che questa parabola potesse applicarsi anche all’ideale comunista, pur essendo convinto che quest’ultimo avrebbe potuto realizzarsi solo “tra molti anni, quando io ad ogni modo non ci sarò più”.

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