American Carnage

di Luca Celada, corrispondente da Los Angeles

 

Ora che c’è un nuovo inquilino nella Casa bianca, il primo regime populista americano può dirsi tecnicamente concluso. 

Ma questo non è avvenuto prima che spingesse la “prima” democrazia occidentale sull’orlo del baratro autoritario operando una mutazione radicale i cui effetti sono ancora tutti da verificare.

 

Dopo quattro anni di conflitto esasperato su ogni fronte, il trumpismo è sfociato nella sua dimensione compiutamente eversiva, rendendo più chiara, in prospettiva, la parabola distruttiva di un movimento che ha portato al tramonto la Prima Repubblica americana.

 

Per trovare precedenti alla sovversione e alle tensioni che stanno dilaniando il tessuto politico americano occorre risalire alla guerra civile e al terrorismo razzista con cui gli stati ex confederati risposero alle tentate riforme della reconstruction. Una campagna politicamente sancita di terrorismo, pogrom e linciaggi che diedero luogo ad un regime di apartheid durato poi cent’anni a cui si ricollegano tutt’ora direttamente le dinamiche che sei mesi fa hanno provocato il maggior movimento di protesta della moderna storia del paese. Le immagini delle bandiere confederate portata nell’aula del Congresso occupato non sono una coincidenza. Trump e il suo populismo suprematista hanno agitato gli scheletri ed i fantasmi del paese schiacciandolo sulla propria storia americana. Non è un caso che Joe Biden abbia così spesso invocato i better angels, gli “angeli migliori” del carattere nazionale, come antidoto alla fiele trumpista.

 

Senza mettere in conto la dimensione razziale – il senso di esautorazione legato al declino demografico ed il risentimento per le conquiste ottenute dal movimento per i diritti civili – cristallizzata nell’elezione di Barack Obama, non è possibile comprendere del tutto il successo di Trump nell’aggregare un consenso così vasto e viscerale. I reclami dei suoi sostenitori non possono essere spiegati solo con la deindustrializzazione e la delocalizzazione del globalismo avanzato – anche se, certo, la disuguaglianza e le contraddizioni strutturali del tardo capitalismo hanno sicuramente contribuito. Uno studio illuminante di Jacob Whiton a questo riguardo ha evidenziato che i distretti dei parlamentari che hanno sostenuto Trump anche dopo l’assalto al Congresso, che continuano a propagare la favola delle elezioni rubate, sono tutti caratterizzati da un declino demografico bianco e dal recente progresso sociale delle minoranze1. Senza la paranoia di una supremazia culturale bianca in percepito declino, dunque, e l’angoscia di settori sociali alle prese con una modernità in cui non trovano collocazione, senza l’ansia per una “disuguaglianza del riconoscimento” strumentalizzata ad arte dai demagoghi populisti, non è possibile inquadrare del tutto il fenomeno Trump. La stessa ansia identitaria virata in rancore sovranista che in Europa sottende la xenofobia anti-immigranti è stata brandita da Trump sin dalle battute iniziali della sua irresistibile espugnazione del partito repubblicano.

 

 

Ascesa

 

Ricalcando una narrazione berlusconiana, Trump si è presentato come definitivo outsider politico. Ha attaccato la globalizzazione liberista, gli accordi commerciali e le guerre infinite. Soprattutto ha attaccato il “sistema” in cui rientravano le perenni élites, Wall street, le università che sfornano intellettuali moralisti e la cultura cosmopolita. L’elemento unificante di questo rudimentale programma di populismo antisistema è stata tuttavia la promessa di veicolare i rancori e il desiderio di vendetta. Trump ha infatti stretto un’alleanza di comodo con l’establishment conservatore dando vita in parallelo ad una politica performativa tutta volta allo zoccolo duro che gli garantiva il potere. Questa ha soprattutto preso la forma di una escalation della ferocia retorica e una serie di decreti atti a consolidare il consenso del “partito della rivalsa”. Ecco quindi le esclusioni anti-musulmane, il muro sul confine, il furto dei figli agli immigrati. Al posto di un effettiva riforma populista (la promessa “bonifica della palude”) è stata inventata una guerra allo “stato profondo”, una fittizia cabala votata ad esautorare gli Americani “veri” della loro predestinazione divina ad essere il “più grande paese della storia.” È una mitopoiesi eccezionalista profondamente radicata in America e sempre strumentalizzata a fini politici, che Trump ha però “militarizzata”, rimuovendo ogni mediazione alla “vendetta”. Un messaggio recepito forte e chiaro dalle frange più estreme.

 

Le prime prove di eversione sono avvenute già tre anni fa con la sommossa nazista di Charlottesville. Allora si trattò di un’avanguardia selezionata di nazionalisti bianchi e miliziani di formazioni di estrema destra, sancita pur tuttavia dal presidente con la sua famigerata dichiarazione di “brava gente da entrambe le parti”. Un’equanimità che fruttò a Trump l’endorsement esplicito di David Duke, leader del Ku Klux Klan, il tutto dissimulato dal partito repubblicano – imbonito da un colossale taglio alle tasse delle corporation – come passeggera esuberanza. Lo scorso aprile la sovversione trumpista ebbe un altro anticipo nelle proteste nomask inscenate davanti ai palazzi di governo di molti stati da sfilate di miliziani armati a bordo di veicoli militari e tripudio di bandiere confederate. Anche allora il presidente fu istigatore diretto: i suoi tweet che farneticavano di “liberazione” del Michigan (dal lockdown eccessivamente severo), ad esempio, produssero un assalto al campidoglio di quello stato, dove la governatrice Gretchen Whitmer aveva istituito norme per la prevenzione del contagio. L’invasione del campidoglio a Lansing da orde di “ribelli” negazionisti fornì il modello esatto per i fatti di Washington otto mesi dopo (l’FBI avrebbe poi scoperto una trama di militanti trumpisti per rapire ed assassinare la governatrice). Rispetto alla sommossa di Charlottesville, fu evidente in quell’occasione un allargamento della radicalizzazione, oltre la cerchia prettamente di miliziani, a settori contigui di negazionisti anti-scientifici ed in genere sostenitori del presidente sempre più in balia della disinformazione sistematicamente diffusa e amplificata dai suoi canali di social media.

 

Proprio l’emergenza sanitaria, che nel paese della scienza avrebbe dovuto essere causa comune e forza unificante, comproverà invece gli effetti distruttivi del regime di disinformazione. In un sistema già votato al mercato ed alla sanità per profitto, il negazionismo di stato condurrà il paese ad una catastrofe sanitaria che non ha uguali al mondo. È la dimostrazione di come la “frattura epistemica” generata dalla menzogna trumpiana abbia pregiudicato fatalmente quella “realtà condivisa” su cui è predicato il dialogo democratico e la gestione della res publica. Trump decostruisce la “verità”, dichiara la stampa “nemica del popolo”, sdogana le fake news e i “fatti alternativi” e sarà questa in definitiva la dimensione più perniciosamente innovativa del trumpismo. Per il numero sempre maggiore di persone disposte a credere all’uso profilattico della candeggina o alle congiure ordite dallo “stato profondo”, o alla fantasie fantapolitiche di mille pagine Facebook, la politica è ormai traslocata su un piano parallelo con scarsa attinenza alla realtà. Ora dell’assalto al Campidoglio, accanto ai sedicenti patrioti ed alle milizie, marciavano madri di famiglia, piccoli imprenditori e un’intera classe di sostenitori suggestionati ormai al punto di immaginarsi soldati in una guerra di liberazione dal giogo di lugubri forze maligne impadronitesi del paese con la frode. Sempre al seguito dei vessilli secessionisti e del loro carico simbolico. Ha scritto la storica dell’arte Jaleh Mansoor che la “fede mitologica abilita una coerenza interna da parte dei fedeli, dando un senso ad un mondo che per loro ne era privo”. Queste persone, spiega la studiosa, non ricercano una realtà fattuale ma ne enunciano una propria, ripetendone la dottrina “come un incantesimo, un insulto, un arma”. Le forze radicalizzate dal trumpismo enunciano dunque gli slogan contro la scienza e la diversità con fanatismo invocando precetti fondativi ormai privi di senso in preda ad una sorta di squilibrio nazionalista e paranoico. Un enorme numero di Americani ha dichiarato la propria secessione mentale dalla modernità.

 

Una complicità fondamentale in questo degrado ricade sulla leadership repubblicana che inizialmente è stata inorridita dal “brutalismo” di Trump, il “bugiardo patologico” come lo aveva definito il texano Ted Cruz, mentre Chris Christie lo aveva reputato un “vigliacco piagnucoloso” e il fido Lindsey Graham era stato ancora più esplicito: “se nominiamo Trump,” aveva detto all’epoca delle primarie, “verremo distrutti. E ce lo saremo meritato.” Ma uno sguardo alle percentuali di consensi raccolti da Trump fra la base repubblicana – e due calcoli sulle proprie fortune elettorali – aveva indotto tutti a rimangiarsi precipitosamente le parole. Trasformati, per cinico calcolo, in fedeli sostenitori e abilitatori, i massimi esponenti dell’establishment repubblicano, guidati da Mitch McConnell, sono stati a guardare con singolare ignavia mentre Trump sfoderava enormità sempre più estreme, fino a spingere il paese nella crisi costituzionale.

 

Il partito della destra americana si era retto su una coalizione di conservatori ideologici e grandi interessi finanziari. L’equilibrio è cominciato ad incrinarsi con Ronald Reagan che ha legittimato settori sempre più dogmatici del fondamentalismo evangelico. Gli ultimi quarant’anni hanno visto una deriva inesorabile verso posizioni progressivamente più estreme, a cui il partito è ricorso per rimediare al declino demografico della middle class bianca che era stata base di riferimento. Formazioni come la Moral Majority e la Christian Coalition e successivamente il Tea Party sono state arruolate come in una spericolata corsa agli armamenti, nelle culture wars su aborto, porto d’armi, gender, clima, evoluzione e diritti civili. Fin quando l’impiego strategico di temi di divisione per galvanizzare l’elettorato ha eroso ogni terreno di compromesso. La definitiva radicalizzazione operata da Trump è il logico ultimo capitolo di questa deriva giunta al capolinea dei “fatti alternativi”. Si è così infine compiuta la mutazione post-democratica di un paese spinto allo stremo. Con una sloganistica semplificata inneggiante all’America First! ed al ritorno alla “grandezza originaria”, un affarista scriteriato con la passione del golf e della reality TV ha posizionato la superpotenza occidentale fuori da Parigi e da Teheran, fuori dall’OMS, da trattati commerciali e dalla convenzione di Ginevra. Di fronte alla minaccia concreta del virus, il culto di morte ha tenuto fede alla propria macabra vocazione con una letale combinazione di rimozione e malevola incompetenza.

 

 

Ultimo atto

 

Con l’approssimarsi della riconferma elettorale, Trump ha intrapreso un azione capillare di delegittimazione preventiva del risultato, preparando il terreno per non dover ammettere una eventuale sconfitta e tenendo esplicitamente in riserva le milizie infervorate a cui in diretta TV ha rivolto l’appello di “stare pronti” (stand back and stand-by). Il piano Trump prevedeva l’uso degli strumenti tradizionali su cui il GOP ha affatto affidamento per mantenere il potere pur da una posizione di minoranza popolare: soppressione del voto delle minoranze e collegio elettorale. L’obbiettivo rimaneva una vittoria di misura negli stati chiave conquistati nel 2016 – abbastanza per assicurarsi il collegio elettorale pur nell’eventualità della prevista sconfitta nel voto popolare. Trump aveva anche un piano di emergenza, basato sull’insinuazione del sospetto di brogli. In caso di sconfitta in uno o due swing states, avrebbe dovuto subentrare la teoria del complotto, sufficientemente disseminata per influire sui tribunali a cui sarebbero stati presentati i ricorsi. Ma a fronte di un disavanzo nel voto popolare di oltre 7 milioni, gli swing states persi da Trump sono stati una mezza dozzina, compresi quelli della Rust Belt, la Pennsylvania e soprattutto Arizona e Georgia, “strappati” alla tradizionale colonna repubblicana. L’altra cattiva notizia per il piano Trump è stata la tenuta delle autorità elettorali locali (anche quelle controllate dai repubblicani) e dei tribunali, compresa la corte suprema. Neanche uno degli oltre sessanta ricorsi è stato accolto. A Trump, imbestialito dal “tradimento” e circondato da una cerchia sempre più ristretta e impresentabile di fedelissimi, è rimasta infine solo l’ultima carta: quella della folla inferocita.

 

Nelle settimane successive all’elezione, invece di smorzare i toni ha anzi rincarato la dose, infiammando il suo popolo e infilando la narrazione preconfezionata dei brogli inesistenti nel vicolo cieco dello scontro fisico. Lo zoccolo duro mutato in culto personale e dissociato dalla realtà non aveva bisogno che di un ordine che è puntualmente arrivato il giorno della befana.

 

Dopo l’assalto al campidoglio la posizione dei repubblicani “moderati” diventa più complicata. Alcuni esponenti repubblicani di spicco, dopo essere stati costretti a rifugiarsi sotto i banchi del Congresso per salvarsi dai forcaioli del presidente che chiedevano la loro testa, si decidono infine a scaricare Trump. Ma molti di più rimangono fedeli al presidente anche dopo che questi ha tentato il primo golpe americano. 147 parlamentari votano fra i cocci ancora presenti in aula contro la certificazione di Joe Biden. Solo 10 repubblicani rompono le fila e votano per il secondo impeachment. È l’indicazione che qualcosa è fondamentalmente mutato nella democrazia americana – e un segnale nefasto per Joe Biden. Sebbene il presidente entrante abbia ottenuto oltre 81 milioni di voti, sono stati ben 74,2 milioni i consensi raccolti da un leader di probabile squilibrio mentale, provata incompetenza e con (all’epoca) 300’000 morti di Covid sulla coscienza. I sondaggi parlano di un 72% degli elettori repubblicani che sostengono Trump anche dopo l’assalto del branco al campidoglio. Significa suppergiù 50 milioni di Americani che considerano oggi illegittimo il proprio governo.

 

Scrive Jelani Cobb del New Yorker, nei giorni prima dell’insediamento: “Tutto questo non è destinato a finire il 20 gennaio. Faremmo bene a prepararci per la trasformazione di Trump in leader di un movimento revanscista che avrà l’obbiettivo di rovesciare il governo.” L’incubo americano che si profila è un Trump libero di sobillare i milioni di suoi seguaci, con sicura presa su frange estreme dalle naturale vocazione al rancore, il vittimismo e alla violenza. Si prospetterebbero anni di piombo col dubbio sulle possibili connivenze fra estremisti e le forze dell’ordine fra cui serpeggia una diffusa simpatia per Trump.

 

I Democratici che hanno strappato di misura il parlamento ai repubblicani (grazie a sforzi eroici di organizzatori come Stacey Abrams in Georgia) dovranno fare i conti non già solo con un’opposizione votata al sabotaggio come quella che paralizzò il secondo mandato Obama, ma una nuova generazione rappresentata da parlamentari come Lauren Boebert del Colorado che ama sfoggiare la pistola alla cintola e il cui motto è “mi porto la Glock in aula” e Marjorie Taylor Greene della Georgia, fautrice della piattaforma QAnon che taccia gli avversari politici – compreso il presidente entrante – di complicità in riti pedofili satanisti. Entrambe sono dichiarate sostenitrici degli insorgenti che hanno assaltato il campidoglio. Più di un centinaio di loro colleghi sostengono tutt’ora che l’elezione sia stata rubata da un vasto e clandestino complotto. La radicalizzazione si prospetta come minaccia esistenziale per la destra, in cui potrebbe infine consumarsi una scissione fra moderati e trumpisti a cui il partito repubblicano difficilmente sopravvivrebbe.

 

Non è chiaro quale possa essere la dialettica capace di ricucire strappi talmente profondi. Certamente il compito di ricomporre una spaccatura fisiologica, sociologica e antropologica ancor prima che politica è destinato a distogliere energie ed idee dalla soluzione di crisi “epocali” quali la pandemia e la crisi economica, il degrado ambientale ed annessi flussi di profughi, la crisi del lavoro provocata dal capitalismo della sorveglianza e l’oligopolio delle piattaforme, la normalizzazione di disuguaglianze insostenibili. L’annunciata battaglia sui vaccini promette di essere solo un anticipo di lotte improntate alla contrapposizione irrazionale e post-scientifica, in cui la costruzione del consenso diventa sempre più difficoltosa.

 

La seconda repubblica americana nasce sotto il segno della più profonda incertezza.

 

 

 

1. Jacob Whiton, “Where sedition is rewarded. An analysis of Pro-Trump congressional districts”, 3Streams, 11 gennaio 2021,

url: https://whitonjacob.medium.com/ where-sedition-is-rewarded-2a50ccc70fd.

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