L’eredità di Trump in Medio Oriente

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente

 

Donald Trump ha lasciato la Casa Bianca a Joe Biden, ma il trumpismo, ben rappresentato dall’assalto al Campidoglio, resterà vivo e vegeto a lungo. Non solo negli Stati uniti.

Si farà sentire ancora in Medio Oriente, dove l’ex presidente Usa è già passato alle cronache per la sua linea aggressiva nei confronti dell’Iran e l’uscita degli Stati uniti dall’accordo internazionale sul programma nucleare di Teheran firmato nel 2015 dal suo predecessore Barack Obama. Ma anche per la demolizione sistematica della legalità internazionale a danno dei palestinesi e per la normalizzazione dei rapporti che la sua Amministrazione ha mediato tra quattro paesi arabi e Israele (Accordo di Abramo). A ciò occorre aggiungere le relazioni speciali che ha stretto con l’Arabia saudita, già fedele alleata di Washington da decenni, al punto da garantire una sorta di immunità all’erede al trono Mohammed bin Salman (MbS), ritenuto da più parti il mandante del brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi avvenuto a Istanbul nel 2018 e un repressore implacabile di ogni forma di dissenso nel suo paese.

 

Stando alle indiscrezioni che filtrano da Washington, la nuova Amministrazione americana sarebbe intenzionata a riallacciare il dialogo con l’Iran e, pare, anche a riportare gli Stati uniti nell’accordo del 2015. Un’operazione che l’eredità lasciata da Trump renderà a dir poco ardua, ammesso che Joe Biden sia davvero desideroso di tendere la mano a Tehran così come aveva fatto Obama. Il primo ostacolo è rappresentato proprio dalla nuova squadra di governo Usa. Certo alcuni suoi componenti hanno appoggiato in passato l’accordo con l’Iran, come la vice presidente Kamala Harris e il Segretario di stato Tony Blinken, però allo stesso tempo sono anche convinti sostenitori di Israele e attenti alle sue “preoccupazioni di sicurezza”. Lo stesso Joe Biden si proclama un “amico stretto” del premier Benyamin Netanyahu e dello Stato di Israele. Quindi è difficile credere che il nuovo presidente possa rientrare nell’accordo raggiunto con Tehran alle stesse condizioni del 2015, senza tenere conto delle forti pressioni che arriveranno da Israele.

 

Non è un mistero: Netanyahu è stato il leader che più di ogni altro ha premuto su Trump affinché gli Stati uniti gettassero nel cestino dei rifiuti le intese con l’Iran e dessero inizio a un nuovo regime di sanzioni economiche contro Teheran. Non è un mistero neanche che a Tel Aviv si guardi con grande attenzione alle mosse di Biden in Medio Oriente. Netanyahu, grazie anche all’Accordo di Abramo, ha messo in piedi una coalizione araba-israeliana contro l’Iran che avrà il compito di presentarsi compatta davanti alla nuova Amministrazione Usa per impedire che sia revocata la “massima pressione” esercitata sull’Iran da Donald Trump negli ultimi quattro anni. Israele inoltre potrebbe minacciare o realizzare un attacco alle centrali nucleari iraniane se gli Stati uniti “non tuteleranno” sino in fondo la sua sicurezza. Su questo punto esiste un consenso ampio tra le forze politiche nello Stato ebraico – ad eccezione dei partiti arabo-palestinesi –, quindi non ci sarà una posizione diversa se Netanyahu perderà le elezioni legislative di fine marzo e sarà sostituito a capo del governo.

 

In questo ambito è centrale il ruolo dell’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman non ama la cautela del padre, re Salman, e vorrebbe normalizzare subito le relazioni con Israele già molto strette dietro le quinte, soprattutto nella cosiddetta sicurezza regionale. Come Netanyahu, MbS teme che Biden segua le orme di Barack Obama nei rapporti con l’Iran. E la stampa che fa capo all’erede al trono, di fatto già alla guida del regno saudita, critica i Democratici Usa e le loro politiche e continua ad avere un tono compiacente e rispettoso verso Donald Trump. Il commentatore Mashari adh-Dhayidi su Asharq al-Awsat, noto megafono della monarchia Saud, analizzando l’assalto al Congresso, ha scritto che “la maggior parte dei politici del mondo si è affrettata a condannare la violenza della folla al Campidoglio” senza capire che “il mandato di otto anni di Obama, che era di sinistra all’interno dello stesso Partito Democratico, è stato precursore dell’attuale estremismo di destra, così come lo è stata la demonizzazione dei repubblicani e delle loro basi elettorali e gli insulti all’intelligenza di 70 milioni di elettori (di Trump)”. Non solo, Dhayidi ha anche accusato movimenti e gruppi come Antifa e Black Lives Matter di aver “istigato episodi di violenza, rivolte e uccisioni di agenti di polizia”.

 

Biden non dovrà fronteggiare solo il fronte arabo-israeliano. Le dure sanzioni economiche, il veleno sparso da Trump negli ultimi quattro anni, l’assassinio ordinato dall’ex presidente Usa, il 3 gennaio 2020, del generale iraniano Qasem Suleimani e quello avvenuto a fine novembre di Mohsen Fakhrizadeh, il più importante scienziato del programma atomico di Teheran (attribuito al Mossad israeliana ma avallato con ogni probabilità da Washington), hanno ridato potere e influenza alle forze più radicali della politica e degli apparati militari della Repubblica islamica. Lo stesso presidente Hassan Rohani, uno dei principali fautori dell’accordo del 2015 e di relazioni distese con i paesi occidentali, ha indurito il tono delle sue dichiarazioni. Nelle scorse settimane Tehran ha annunciato che aumenterà unilateralmente la sua produzione di uranio e il numero delle centrifughe, facendo parlare i suoi avversari di passo verso la costruzione di una bomba atomica iraniana. “L’aggressività statunitense ha avuto l’effetto che Trump e Netanyahu speravano – ci dice l’analista Mouin Rabbani –, creare all’interno dell’Iran un ampio blocco contrario o comunque apertamente diffidente nei riguardi della ripresa del dialogo con gli Usa”. Rabbani prevede che se Biden non revocherà al più presto le sanzioni economiche e politiche volute da Trump, “non sarà nella posizione di rilanciare i rapporti con Tehran. Israele e le monarchie arabe invece gli diranno di confermarle e inasprirle”.

 

Un atteggiamento morbido la nuova Amministrazione Usa lo incontrerà tra i dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese che, attraverso il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), già dopo il voto del 3 novembre negli Usa ha mandato segnali concilianti e segnalato la volontà di riprendere il negoziato con Israele grazie all’aiuto della Casa Bianca. Negli ultimi quattro anni, Trump ha esercitato una pressione senza precedenti sui palestinesi infrangendo il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu, appiattendosi sulle posizioni di Netanyahu e di Israele. Ha riconosciuto unilateralmente Gerusalemme come capitale di Israele, ha aperto la strada con il suo «piano di pace» (Accordo del Secolo) all’annessione (per ora congelata) allo Stato ebraico di larghe porzioni di Cisgiordania e ha “legalizzato” gli insediamenti coloniali nei Territori palestinesi occupati: le loro merci sono importate negli Usa con l’etichetta “Made in Israel”, al contrario dell’Unione europea che richiede sia specificata la provenienza effettiva. Con l’Accordo di Abramo ha spinto quattro paesi arabi ad avviare relazioni con Israele violando l’iniziativa di Beirut del 2002 che condiziona la normalizzazione nella regione alla fine dell’occupazione militare israeliana e alla piena autodeterminazione dei palestinesi. Ha anche tagliato i finanziamenti Usa all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste oltre cinque milioni di profughi palestinesi, e le donazioni ai programmi umanitari nei Territori occupati al punto da bloccare USaid, l’agenzia governativa americana per la cooperazione. Senza dimenticare l’assegnazione, altrettanto unilaterale, a Israele delle Alture del Golan, un territorio siriano occupato dalle truppe israeliane nel 1967.

 

Fino a che punto Biden è pronto a rilanciare i rapporti con Mahmoud Abbas e l’Anp? “La leadership palestinese fa bene a non alzare troppo l’asticella delle sue aspettative” afferma Ghassan Khatib, docente di scienze politiche all’università cisgiordana di Bir Zeit, “il nuovo presidente americano senza dubbio proverà a correggere alcune delle politiche di Trump verso i palestinesi. Ma si concentrerà più su aspetti economici e riprenderà i finanziamenti all’Unrwa e ai programmi umanitari”. In politica, aggiunge Khatib, “non dobbiamo aspettarci mosse particolari. Biden e il Segretario di Stato instaureranno rapporti distesi con i palestinesi, si proclameranno a favore della ripresa del processo di pace, contro gli atti unilaterali e l’espansione delle colonie ebraiche nei Territori occupati. Ma non riporteranno l’ambasciata Usa da Gerusalemme a Tel Aviv o prenderanno posizione sulla legalità delle colonie e l’etichettatura dei loro prodotti. L’alleanza con Israele resterà inalterata perché è un pilastro della politica estera di Washington, non importa se alla Casa Bianca ci sia un Democratico o un Repubblicano. E la nuova Amministrazione, in ogni caso, include tanti amici dichiarati di Israele”.

 

Concordano gli analisti israeliani che non ritengono che la questione israelo-palestinese sarà al centro della diplomazia statunitense nei prossimi quattro anni. Biden e la sua squadra, prevedono, saranno occupati soprattutto dall’Iran. Qualche frizione, concludono, potrebbe emergere solo se Netanyahu, o chi prenderà il suo posto, insisterà per l’annessione a Israele di parti di Cisgiordania o approverà piani per la costruzione di molte migliaia di nuove case nelle colonie.

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