Giro di vite del PCC sui giganti cinesi dell’hi-tech

di Simone Pieranni, corrispondente da Pechino

 

Mentre si rincorrono le voci circa la scomparsa di Jack Ma, è bene procedere a una spiegazione lineare di quanto sta accadendo in Cina, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra Partito Comunista e Stato cinese e i big del mondo tecnologico, in particolare Alibaba e Tencent.

Da tempo, infatti, l’aria che si respirava all’interno della comunità business cinese era piuttosto allarmata: la pressione sul settore privato, con tentativi di inserire anche in contesti privati un ufficio del PCC, e la più generale ricalibratura di Xi Jinping nella gestione economica del Paese a favore dello Stato (cosa che non è mai venuta meno, in realtà, ma negli ultimi anni, specie nel settore hi-tech, sono sorti e prosperati numerosi imperi).

 

Quando, non a caso, nel 2018 Jack Ma aveva annunciato il suo ritiro da presidente di Alibaba per annunciare la sua attività da filantropo e la volontà di ritirarsi dai ritmi stressanti del suo lavoro (di cui ha sempre fatto un vanto), in Cina non gli ha creduto nessuno. Jack Ma, a capo di un vero e proprio impero economico (Alibaba è il maggior attore al mondo nel settore e-commerce, con un fatturato pari a 467,72 miliardi di dollari), pur avendo annunciato pubblicamente di avere la tessera del Partito Comunista, non aveva lesinato critiche e in tanti hanno pensato che il suo ritiro fosse dovuto alla sua volontà di godersi una vita tranquilla anziché rischiare di finire nel tritacarne del PCC. Arricchirsi in Cina è ancora glorioso, o quanto meno è possibile, ma può anche diventare rischioso. Jack Ma dunque per evitare guai si era defilato, ma dopo poco, forse fiutando l’aria, era tornato a criticare il governo. Durante un convegno a Shanghai il 24 ottobre, aveva detto che “la Cina non ha un problema di rischio finanziario sistemico, il rischio deriva dalla mancanza di un sistema. L’innovazione non ha paura della regolamentazione ma ha paura della regolamentazione obsoleta. Non dovremmo usare il modo di gestire una stazione ferroviaria per regolamentare un aeroporto”. Le banche cinesi? “Sembrano dei banchi dei pegni”.

 

Questo contrasto, come previsto, è infine esploso e ha portato con sé tutto il settore dell’hi tech cinese. Il primo a essere colpito è stato proprio Jack Ma, perché a inizio di novembre 2020, la quotazione record nelle borse di Shanghai e Hong Kong di Ant Financial, spinoff di Alibaba, che avrebbe dovuto raccogliere 34,5 miliardi di dollari è stata sospesa da Pechino (si dice da Xi Jinping in persona). Poco prima, la dirigenza del gruppo era stata convocata nella capitale. All’inizio è parso che questo evento fosse un semplice avvertimento. Ma ben presto Pechino ha mostrato tutte le frecce al proprio arco, la cui traiettoria disegna una volontà ben precisa: quella di limitare questi colossi economici privati che hanno finito per accumulare una mole di dati impressionante, inserendosi in settori peculiari, come ad esempio quello dei pagamenti e – ancora più sensibile – quello delle banche attraverso servizi di microcredito e fintech.

 

Poco dopo il blocco di Ant, infatti, Pechino ha reso noto di lavorare a una nuova regolamentazione che dovrebbe prevedere un capitale maggiore come requisito per erogare prestiti, oltre alla possibilità di mettere sullo stesso piano le società finanziarie tradizionali e quelle, come Ant, che operano solo on line.

 

Ma c’è dell’altro, perché oltre alla volontà delle autorità bancarie cinesi di regolarizzare il microcredito online c’è anche una potenziale nuova legge anti trust (e più intransigente sull’utilizzo dei dati da parte delle aziende). Lo scopo di entrambe le azioni del governo è molto chiaro: le aziende private possono espandersi ma solo entro certi limiti. Anzi, Pechino sembra essere pronta a quanto in Occidente si discute da tempo, specie negli Usa con un consenso bipartisan, ovvero smembrare questi imperi. Negli Usa lo si fa in nome del mercato; in Cina l’obiettivo è quello di controllare settori che – in caso di imprevisti – possono sfociare in gravi problemi di natura sociale. E non dobbiamo dimenticare che il chiodo fisso del PCC è uno soltanto: il mantenimento della stabilità.

 

Lo scorso 12 novembre Pechino ha presentato una bozza di legge volta a frenare il comportamento monopolistico delle sue piattaforme, con una mossa che secondo gli analisti porterà a un maggiore controllo dei mercati di e-commerce e delle piattaforme di pagamento e delivery, tra gli altri. A questo proposito si può parlare di un vero e proprio atto di guerra da parte del governo cinese nei confronti delle aziende hi-tech, in particolare in un settore che registra un miliardo di users attivi, con Alibaba che gestisce il 55% dei pagamenti online e Tencent il 40%. La bozza di legge è stato un gesto talmente forte da parte di Pechino da portare al crollo delle azioni in borsa: nei giorni successivi alla rivelazione i giganti tecnologici cinesi hanno perso quasi 290 miliardi di dollari di valore di mercato mentre gli investitori facevano a gara a vendere le azioni. Il recupero è arrivato solo a seguito delle risposte di Tencent e Alibaba che ben descrivono il “clima” che si sta vivendo in Cina all’interno degli ambienti economici. La prima ha dichiarato di accettare senza ombra di dubbio ogni regolamentazione che il governo riterrà necessaria. Alibaba è andata anche più in là.

 

Il 22 novembre, all’apertura della World Internet Conference ospitata in Cina, Daniel Zhang, il Ceo di Alibaba, ha sostenuto che non solo una nuova legge è giusta e necessaria, ma che senza l’apporto del governo non ci sarebbe mai stata l’era del digitale in Cina come è invece avvenuta. Zhang non ha tutti i torti, perché se il partito comunista non avesse tenuto fuori dal mercato cinese i big occidentali, forse oggi Alibaba e Tencent non sarebbero così forti. Ma è anche vero il contrario: senza alcune intuizioni delle due aziende, il settore cinese forse sarebbe progredito in modo meno spedito. Questa captatio di Zhang indica però un dato politico rilevante: neanche le aziende leader del mercato internet cinese si possono porre contro Xi Jinping. E il mercato ne terrà conto.

 

Su questo scontro in atto ci sono altri due aspetti da tenere in considerazione per prevedere mosse future da parte del governo centrale. Alibaba e Tencent offrono servizi di pagamento online e offline che ormai sono utilizzati dalla maggior parte dei cinesi. Di recente però il governo centrale ha emesso la propria valuta digitale (in vigore già in alcune città in fase sperimentale) con lo scopo di entrare in quel business (redditizio perché WeChat, ad esempio, deve molto del suo fatturato alla percentuale guadagnata su ogni singola transazione). Significa che Alibaba e Tencent, da fiore all’occhiello di Pechino e da aziende in grado di accaparrare dati in giro per il mondo e sviluppare i propri servizi avanzati in termini di AI e IoT, diventano concorrenti dello Stato cinese.

 

Il secondo aspetto è proprio legato ai dati: anche in questo caso la bozza di legge proposta a ottobre per una nuova regolamentazione della privacy in Cina (avvicinabile a quella europea) non farà che mettere in difficoltà le grandi aziende cinesi che devono molta della propria forza alla possibilità di operare nelle grey zones della raccolta dati in Cina.

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