Braccio di ferro russo-turco nel Caucaso

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

Tutta la grande stampa internazionale ha sostenuto la tesi secondo la quale l’accordo di pace a tre nel Nagorno-Karabakh sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza ormai strategica tra Putin ed Erdogan che si allungherebbe lungo una dorsale che va dal Caucaso fino alla Libia. 

Una chiave di lettura tutta ideologica, quella dell’unità dei dittatori contro le democrazie, costruita sulla presunta unità d’intenti tra i due regimi autoritari in Medio Oriente e non solo.

 

La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena in realtà ha avuto due vincitori (Turchia ed Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia). Gli accordi di pace firmati in fretta e furia il 9 novembre 2020 mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno rappresentano una vera e propria debacle per il governo di Nikol Pashinyan. L’Armenia ha dovuto dare definitivamente addio al sogno di giungere ad una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato da Azerbaigian, Armenia e Russia afferma infatti che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh tornerà in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri dalla capitale di Arkash (come viene chiamato il Nagorno dagli armeni), Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla.

 

La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu (circa 2500) tra i contendenti, piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione, ma segna un suo ulteriore arretramento geo-strategico. E non da poco. Malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, CSTO) capeggiato proprio dalla Russia, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure negli ultimi giorni del conflitto quando il premier armeno lo aveva espressamente richiesto, sottolineando al contrario più di una volta la propria neutralità nel conflitto. Per restare nel gioco ed avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia dalla sua sfera d’influenza. Che si aggiunge alla complicata situazione in Bielorussia e in Moldavia (dove nelle recenti elezioni ha vinto il centro-destra filo-Ue) che rischiano a medio termine di pencolare definitivamente verso la Nato. Del resto, l’equidistanza nel conflitto del Nagrono-Karabakh dopo il “ruggito” di Putin a sostegno Lukashenko in agosto non è passato inosservato a nessuno. Mosca scommette sulla possibilità di tenere il punto con Erevan grazie al fatto che l’Armenia non potrà entrare nella Nato, almeno fino a quando ne farà parte la Turchia. E si gioca il tutto e per tutto in Bielorussia. Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, ha sostenuto recentemente che Minsk “rappresenta per la Federazione una ‘linea rossa’ che gli occidentali non si devono permettere di superare”.

 

Nell’intervista concessa a Rossija 1 dopo l’armistizio, invece, il presidente russo ha voluto togliersi più di un sassolino dalle scarpe: “Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente azero Aliyev che con il primo ministro armeno Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale, del Karabakh. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente... il primo ministro Pashinyan mi ha detto che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabakh. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu. Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutte per l’“alleato cristiano”, per l’Armenia. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere a lungo il tamburo propagandistico del tradimento russo.

 

Nella guerra di Arkash ha rischiato di restarci impigliato anche il movimento kurdo che fa rifermento al comunalismo democratico e in particolare i suoi gruppi di protezione internazionali attivi in Siria e in Iraq. La Turchia ha infatti accusato l’Armenia di aver reclutato mercenari kurdi durante i due mesi del conflitto e di aver permesso la creazione sul suo territorio di campi di addestramento per le YPG, un’accusa subito rimandata al mittente dai combattenti del Rojava. Un’insinuazione prefabbricata che potrebbe venir buona all’asse azero-turco per future incursioni contro quel che resta del Nagorno-Karabakh armeno nel prossimo futuro.

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