Un giorno verrà – prima parte

Comunicato CSOA il Molino

 

Cronistoria a puntate di un tempo incerto, a mo’ di chiarezza.

La storia dell’autogestione a Lugano è anche storia di incontri e di rapporti (trattative) con le istituzioni, fin dalle origini. Già dagli anni 70 avvennero degli incontri con l’obiettivo di trovare uno spazio da autogestire in completa autonomia.

Chi già allora c’era ci racconta di come le cose non fossero fondamentalmente troppo diverse da adesso. Tante parole, tante promesse, un certo tentativo di riconoscere una sorta di autogestione, ma fatti zero. Si dovette ricorrere all’occupazione per arrivarne a una. Prima con l’irruzione da parte di Realtà Antagonista e del Collettivo Zapatista in una seduta del Consiglio comunale cittadino. Poi, poco dopo, durante i mondiali di ciclismo di Lugano – in seguito allo sgombero della festa di primavera del Tassino e la conseguente manifestazione di oltre 2’000 persone contro la repressione e per uno spazio autogestito, il 12 ottobre del 1996 – il tempo si fermò improvvisamente per un istante e lo stabile degli ex molini Bernasconi a Viganello fu occupato. Un subbuglio inatteso in città e un fermento mai visto fino ad allora andavano a contaminare un intero cantone. Un fiore che lento e paziente cresceva. Per finalmente sbocciare.

 

Anche la classe politica non restò indifferente e si affacciò a vedere quello che succedeva. Accanto all’enorme successo e partecipazione di quell’anno al di fuori di ogni legge e di ogni autorità, cominciarono vari incontri, trattative, promesse. Allo stesso modo si facevano sempre più pressanti i malcontenti rispetto all’occupazione. Il 6 giugno 1997, dopo ripetute avvisaglie e minacce eloquenti, venne appiccato il fuoco allo stabile degli ex molini Bernasconi. Tante voci mormorano le dirette responsabilità politiche di quell’incendio. Il fuoco si alzò alto quel venerdì sera, con più di 500 persone e una nidiata di cuccioli di cani – i primi cani del Molino – presenti all’interno dello stabile. Tutto rimase nel campo delle ipotesi e i responsabili e i loro mandanti non vennero mai – ufficialmente – individuati.

 

Iniziarono allora nuovi incontri e nuove estenuanti sedute. Erano sicuramente tempi diversi. Un periodo in cui le tensioni sociali ricominciavano ad affiorare sempre più violentemente. In Chiapas nel 1994 le zapatiste e gli zapatisti si erano sollevate in armi. Cominciò il vasto movimento no-global: Ginevra, Seattle, Davos e Genova si stavano preparando all’esplosione. E così gli aerei sulle Torri Gemelle. Come in un katun – l’antica cronosofia maya dei popoli originari per cui la storia si svolge in una successione di cicli di 20 anni – il tempo era lì che spingeva, avvolgendosi su sé stesso. Un serpente piumato stava per alzarsi alto nel cielo.

 

Venne individuato l’ex grotto al Maglio come sede per il Centro Sociale. Tra mille discussioni e tensioni, cominciarono le tarantelle, le passerelle e le danze lineari di una nuova epoca di trattative. Il tempo assumeva una nuova dimensione. Commissioni “cerca”, “trova”, “mista”, “tecnica” (in corso durante lo sgombero del Maglio). Ogni volta con personaggi politici diversi. Tuttx di base con una stessa ignoranza, impreparazione e incapacità di capire l’autogestione – ma, in fondo, cosa c’è da aspettarsi? E con un certo stupore nel vedere con i propri occhi che, al di là delle loro certezze, un altro mondo era possibile. Perché se è vero che le/i rappresentantx dell’assemblea cambiano e si modificano senza una – a volte “comprensibile” – continuità, è altrettanto vero che chiunque sia andato a rappresentare il Molino in questi 25 anni sapeva esattamente cosa diceva, e in nome di chi e di cosa lo diceva. E lo faceva su preciso mandato di una collettività che si era espressa per ore durante le discussioni assembleari. E quel che diceva, l’assemblea faceva. Al contrario di una classe politica vaga, senza contenuti, che cambiava continuamente ma che mai riusciva (o voleva) confrontarsi realmente sull’idea dell’autogestione.

 

Allo stesso modo il risultato di tutti gli innumerevoli incontri non si discostò troppo dalla lunga storia di vuoti che contraddistingue le cosiddette trattative. In 25 anni ci siam sedutx al tavolo con almeno una decina di Consiglieri di Stato (i Buffi, i Martinelli, i Pedrazzini, i Borradori), con altrettanti sindaci e municipali di Lugano (Giudici, Cansani, Bignasca, Pelli, Mariolini, Zanini-Barzaghi, Borradori, Bertini) e il risultato non è mai cambiato. Se non, forse, per un certo pragmatismo nell’affrontare – o meglio nell’essere costrettx ad affrontare – le cose.

 

Si susseguirono così i vari incontri. Alle innumerevoli proposte e progetti di stabili individuati dall’assemblea del CSOA il Molino, si contrapponeva l’assoluta incapacità di dare risposte o trovare soluzioni. Tante belle parole e sorrisi accattivanti ma di soluzioni neppure l’ombra. E l’assemblea lì in mezzo, paziente e più o meno “disponibile”, a discutere, a proporre e a faticare nel trovare nuove persone disponibili ad andare a farsi un giro sulla giostra delle trattative. Chissà, sarebbe interessante chiedere alle tante donne e uomini passate da un incontro con Municipio e Consiglio di Stato, che impressione si sono fatte dei vari personaggi che si arrogano il diritto di rappresentarci. E, probabilmente, una risata li seppellirebbe.

 

Si arrivò quindi al primo dei subdoli tentativi di “soluzione finale”. L’unica da sempre individuata dall’autorità: lo sgombero. Al rifiuto dell’assemblea del Molino di mettere fine alle attività musicali, la risposta del Consiglio di Stato del Cantone Ticino, con la firma dei Consiglieri di Stato, la socialista Patrizia Pesenti e il leghista Marco Borradori (toh! chi si vede…), fu l’intervento di polizia all’alba del 18 ottobre 2002. E ancora, dopo alcuni giorni di tensioni, ricominciò la danza macabra degli incontri. Al primo, come rappresentante del CdS partecipò l’attuale sindaco Marco Marchino bugia facile Borradori. Di un candore impressionante. Sorridente, positivo, amabile, si diceva dispiaciuto dell’accaduto e che una soluzione si sarebbe sicuramente trovata. Lui dell’autogestione – diceva – non ne sapeva tanto ma gli sembrava pure una bella cosa per questi giovani.

 

Insomma s’aveva da trovare una soluzione. Che arrivò. Ma che non contemplava particolari sforzi della “politica”. E la strada del Molino fu un’altra: pur continuando a “dialogare”, si decise semplicemente di ri-camminare le strade e di portare l’autogestione in giro per la città. Ovunque. Cortei, pranzi, concerti, proiezioni, assemblee, dibattiti si susseguirono per più di un mese in tutta la città. La pressione popolare – forse inaspettata per costanza, determinazione e densità – cambiò decisamente le carte in tavola. E rese evidente che la necessità e la rivendicazione dell’autogestione era una chiara realtà. Potevi non capirla, sbeffeggiarla, schifarla, criticarla ma decisamente non potevi più fare finta di niente. Qualcunx diceva che “solo la lotta paga”. E quei giorni ce ne diedero conferma. Perché di fatto quello che il Molino ha ottenuto se l’è conquistato con la lotta. Prima, nel ‘96, occupando un edificio abbandonato e poi costringendo le autorità a concedere uno spazio grazie alla pressione popolare.

 

Il 23 dicembre 2002 venne convocato il terzo corteo in poco meno di due mesi per le vie della città. Un corteo che sarebbe dovuto passare per il centro città di Lugano. Sarebbe perché l’intento reale – e finora mai esternato – era di andare a occupare proprio l’ex macello. Il lunedì prima ci trovammo in presidio davanti al municipio in seduta. Un centinaio di persone e castagne per tuttx. Inaspettatamente venne richiesto a una delegazione di salire in municipio dove, tra facce livide e tese, ci vennero consegnate le chiavi dell’ex macello, con proposta di convenzione – ampiamente riveduta e rimodellata dall’assemblea, per la durata di un anno – in attesa di una sede definitiva.

 

Altri 19 anni son passati. Altri incontri, promesse, minacce, decisioni convulse. Anni in cui il Molino ha saputo reinventarsi sempre. Ha saputo riaprire nuovi spazi (tipo la palestra popolare frequentata per innumerevoli attività e prima lasciata deperire come magazzino), mentre il Municipio investiva 400’000 franchi per rimettere a posto una parte dell’ex macello: struttura da subito poco utilizzata e oggi caduta nel dimenticatoio (e alla quale si son dimenticati di metterci i cessi…). Nel frattempo gli stabili proposti dall’assemblea nei vari anni venivano puntualmente abbattuti, riqualificati, gentrificati. Al posto dell’ex Campari e del successivo Luna Park, in riva al Cassarate, ora sorge il nuovo manufatto di cemento e telecamere del campus universitario USI/SUPSI. Costruito in tempi record nonostante il covid, i gravi incidenti sul lavoro e il corredo di subappalti e caporalato denunciato recentemente dal sindacato UNIA. Al posto dell’ex Termica il Cinestar. Al posto della casa laboratorio Inti a Molino Nuovo (cooperativa-asilo creata a partire dal Molino) un palazzone dagli affitti improponibili. Lo stesso Morel, dopo essere stato contrastato in ogni modo, è lasciato ora a deperire. All’ex teatro Cittadella sorgerà una casa per ricchi anziani progettata dalla stessa archistar del casinò di Campione. Intanto per l’area ex macello, il comune con il più alto debito in Svizzera (si parla di un miliardo), decide di spendere 26,5 milioni di danari (ovviamente a debito pubblico e profitti privati) per un progetto senza senso, patetico copia-incolla di molte attività già proposte dalle attuali pratiche di autogestione di questi spazi. E come tralasciare il nuovo stadio – la cacciata dei “poveri” da Cornaredo e Pregassona – per investire la bellezza di 300 milioni per uno stadio (e i suoi complementi cementificatori, ecocidi e securitari, come la nuova torre di polizia). Ultimo pezzo del rendering asettico, dispotico e poliziesco della leghista Lugangeles.

 

Il Molino, invece, alla faccia delle menzogne del Municipio e del suo sindaco, ha continuato a proporre le più diverse attività a prezzi popolari, aperto a tutta la popolazione e facendosi spazio sicuro e non escludente verso qualsiasi differenza di credenze, generi, corpi, provenienze, orientamento sessuale che, in questi anni, abbia voluto attraversarlo.

 

Arriviamo all’ultimo tentativo di trattative. Dopo che vari progetti partiti dallo stesso Municipio di Lugano avevano provato a riqualificare l’ex macello, l’assemblea decise di risedersi al tavolo delle trattative. Era su per giù l’autunno del 2015. Per ulteriori 3 volte – presenti Borradori, Bertini e Schnellmann tra gli altri – si accettò il confronto, nonostante per l’assemblea fosse da subito chiara la natura dell’ennesima farsa volta unicamente a imporre una loro idea di autogestione “controllata e pacificata”. Presentammo i vari progetti, i vari spazi storicamente indicati come possibili approdi. A richiesta precisa illustrammo una volta ancora le necessità dell’autogestione, gli spazi necessari, le idee dietro il concetto, il valore e l’importanza dell’assemblea, la necessità del principio di rotazione delle eventuali rappresentantx, l’inconformità con la società ufficiale, l’anomalia dell’esperienza, il suo lato di rottura, di conflitto, di sperimentazione e la netta opposizione al fatto di farsi ingabbiare – docili docili – tra quattro mura. Di fronte un vuoto disarmante: di parola, di contenuti, di capacità, di fantasia. E quella sensazione iniziale di impossibilità di arrivarne a una, confermava la netta realtà di mondi inconciliabili.

 

Non se ne cavò un ragno dal buco. Anzi. E dopo che i rappresentanti del municipio se ne uscirono con la carta di fantomatici stabili individuati ma che preferivano non rivelare, per non giocarseli (senza tralasciare le sconcertanti uscite, bugie e strumentalizzazioni fatte dal duo Borradori-Bertini da lì in avanti), l’assemblea decise di uscire una volta per tutte dalle trattative: avere a che fare con tanta codardia e inaffidabilità risultava per l’ennesima volta insostenibile. E l’esempio avvenne poco tempo dopo quando proposero dei nuovi incontri farsa di un gruppo misto di lavoro con assistenti sociali, poliziotti e funzionari!

 

 

Lugano, 10 aprile 2021

 

A 102 anni dalla vigliacca imboscata che assassinò, il 10 aprile 1919, presso la fattoria di Chinameca, il guerrigliero-generale Emiliano Zapata. Gridando “Tierra y libertad!”.

 

Con la determinazione dei tramonti, che, ogni sera, non importa ciò che farai, torneranno e faranno notte (Giulia Caminito, Un giorno verrà)

 

 

(continua…)